Giovanni Agnelli *1921-2021* – L’avvocato

Prevalenza dell’occhio, accelerazione, sintesi estrema con cui il giudizio si forma, anche a rischio di una certa istintiva superficialità, sono i suoi dati caratteristici, fin da giovane. Come dirà l’editore Dino Fabbri, con cui Gianni aveva fatto una volta un avventuroso viaggio in Colorado: «In lui c’è un che di byroniano, il continuo richiamo a spingersi sempre in avanti». Solo un giorno Fabbri si illuderà di averlo raggiunto. Sarà quando una mattina, dalla sua Rolls Royce in cui è stato montato uno dei primi telefoni portatili, farà il numero della macchina di Agnelli. Ma alla risposta dell’autista: «L’Avvocato sta parlando sull’altra linea», Fabbri dovrà rassegnarsi, perché sull’auto dell’amico sono già installati due apparecchi.

Va in America a soli 18 anni e questo gli basta a capire come andrà il mondo. Dopo Pearl Harbor, conoscendo gli americani, sarà tra i pochi a comprendere subito che la guerra è finita. «In America l’auto, il dinamismo, il movimento erano considerati fattori di progresso – spiegherà molto anni dopo -. In Europa e in Italia una simile cultura doveva ancora diffondersi». I vent’anni in cui, dopo la fine della guerra, si diverte, si svaga, frequenta in Costa Azzurra una strana élite fatta di miliardari, magnati dell’industria e della finanza, ma anche di soggetti improbabili che consumano le loro vite ai tavoli del casinò è una strana palestra di vita, un mondo a parte, diviso tra «quelli che parlavano di donne e quelli che parlavano con le donne», per usare una sua metafora; quelli che attendono l’appuntamento con le proprie responsabilità e quelli abbandonati alla rovina, una rovina dolce solo all’apparenza. Un periodo in cui all’Avvocato può capitare di incontrare su uno yacht ancorato in rada un vecchissimo Churchill, o uscire in barca a vela con i giovani Kennedy.

Dopo il matrimonio con Marella Caracciolo di Castagneto, il 19 novembre 1953, l’ora della chiamata al vertice della Fiat s’avvicina gradualmente. Passeranno ancora più di dieci anni, la planata sul ponte di comando è lenta ma progressiva, una riunione di vertice dopo l’altra, una visita alla catena di montaggio, un meeting con gli anziani, la presentazione di un nuovo modello, un motore, un sedile, un ingranaggio. L’impatto con la vecchia fabbrica, rigidamente organizzata come una caserma dei carabinieri, è notevole. L’uomo sembra piovuto dal futuro: è alto, quando tutti quelli che lo circondano, a cominciare dal professor Valletta, non lo sono. È magro, mentre tutti sono grassi. È vestito all’inglese, con giacche sagomate sui fianchi, tra gente insaccata in abiti corti o sformati.

Ha guidato la Fiat per due terzi della sua vita. E l’ha considerata un’istituzione da difendere, specie negli anni duri del terrorismo, segnati anche dall’assassinio del vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno. Il rigore, impensabile in lui fino a qualche anno prima, gli viene dalla vita militare, cominciata alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo. Il ruolo pubblico, che coronerà in vecchiaia con la nomina a senatore, lo conquista con la presidenza di Confindustria: è il biennio più difficile, 1974 -’75, con la violenza che ormai ha fatto irruzione negli stabilimenti e lo costringe a muoversi con la scorta. «In una sola giornata – dirà in un’intervista a una tv olandese per dare l’idea delle difficoltà del periodo – l’assenteismo alla Fiat è pari all’intera forza lavoro dell’Alfa Romeo». Ma Torino può sorprendere. La Torino in cui ogni mattina ci si sveglia ascoltando la radio per capire se le Br hanno colpito ancora, il 14 ottobre 1980 trova le strade piene di «colletti bianchi», manager e impiegati che protestano contro la fabbrica occupata e manifestano per tornare al lavoro.

L’Avvocato ama il suo giornale, La Stampa, dove è solito affacciarsi a sorpresa per far due chiacchiere con i giornalisti. E’ curioso di ogni cambiamento tecnologico, i computer in redazione, la teletrasmissione delle pagine da un capo all’altro del Paese. E’ una passione che contagerà il nipote, John Elkann. Anche lui, atterrato a Torino a diciott’anni per studiare al Politecnico, alla fine di una giornata di lezioni e di studio, prima di tornare nel collegio in cui vive, si affaccia al giornale nell’ora concitata della chiusura della prima edizione. Guarda tutto, come se dovesse imparare. E poi viene a cena in trattoria, rispettando l’ansia e le nevrosi dei colleghi che ancora pensano a quel che c’è da correggere sulle pagine appena stampate. Un altro grande amore è la Juventus, che segue anche negli allenamenti. Dove una volta, meravigliando i giocatori, si presenta con Gorbaciov. Finisce che tutti vogliono una fotografia con l’ex-leader sovietico.

A Biagi, che lo chiama per comunicargli che Buscetta è juventino, l’Avvocato risponde: «E’ l’unica cosa di cui non dovrà pentirsi!». Allo skipper Soldini che ha rallentato in una regata oceanica per soccorrere una velista francese in difficoltà: «Solo lei poteva trovare una donna in mezzo al mare!». Con Kissinger, l’ex-segretario di Stato con cui parla due volte al giorno per tenersi aggiornato sull’America, commenta le conseguenze del sexgate clintoniano: «Quando a Jefferson contestarono che avesse un’amante, rispose: “Cosa vogliono, un eunuco alla Casa Bianca?”». Battute entrate ormai nella storia. Seppure, qualche volta, non funzioni. Capita con Zhikov, il vecchio stalinista bulgaro a lungo a capo del suo Paese. Agnelli gli chiede se è vero che i dissidenti li chiude in manicomio. E quello: «Se dissentono da me, vuol dire che sono matti». Ricapita con Fidel Castro, quando gli domanda se mai ci saranno vere elezioni a Cuba. E l’altro: «E’ come se le chiedessi quando comincerà a fare vere automobili». Accade ancora un giorno che ha convinto Kissinger a partecipare a un incontro con D’Alema, il primo, riservato faccia a faccia a Roma. Ad Agnelli è piaciuto: «Non trovi che senza i baffi non diresti che è un comunista?». E Kissinger: «Non illuderti: con o senza baffi resta uno di quelli».

E’ difficile dire quando davvero è invecchiato. La sua faccia, il suo sorriso, sono rimasti gli stessi per decenni. L’estate prima di ammalarsi e morire, al raduno per i 150 anni della Coppa America all’isola di Wight, ancora si divertiva a bordeggiare con il suo Stealth, il veliero che poi vinse la Fastnet Race.

Negli anni che ci separano dalla morte, tuttavia, la figura dell’Avvocato e il ruolo avuto per oltre un secolo da una dinastia imprenditoriale come la sua sono stati riletti, indagati, studiati, per cercare di metterne in discussione, al di là dei meriti, l’inadeguatezza finale a reggere il passo con le conseguenze impreviste della globalizzazione e a cogliere i segni della crisi gravissima che aveva colpito la Fiat a cavallo tra il Novecento e il secolo nuovo. Naturalmente, nessuno è immune da critiche. Ma a leggere attentamente queste analisi si avvertono due limiti. Il primo: identificare la morte dell’Avvocato, che in vita si era assegnato, ed aveva realizzato, non senza difficoltà, il compito di traghettare la Fiat da un secolo all’altro, con quella che a un certo punto, sbrigativamente, sembrava poter essere la fine della sua azienda. Qualcosa che non solo non s’è verificato, ma è stata evitato così efficacemente, grazie all’impegno del nipote John Elkann, che la ripresa e il rilancio su scala globale del gruppo, senza altre risorse che quelle dei suoi azionisti, dei propri dirigenti e lavoratori, sono ora considerati un esempio da studiare. Il secondo sta nel metodo e nell’unità di misura usati per arrivare a una conclusione: giudicare insomma con il metro di oggi un uomo e una lunga serie di fatti che appartengono al nostro ieri. Si è detto, si è scritto: il fascino di un personaggio unico, com’è stato Agnelli, non può evitargli il confronto, non sempre favorevole, con la dura legge dei numeri. Anche se i numeri, da soli, non rendono il senso di una vicenda straordinaria, insieme umana, familiare, aziendale, politica, interna e internazionale, com’è appunto questa sommariamente raccontata fin qui.

LA STAMPA

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