Archive for the ‘Cultura’ Category

Oggi è la è la giornata degli Oceani, ma il mare è un grande ferito

giovedì, Giugno 8th, 2023

Nicola Lozito

Oggi è la è la giornata degli Oceani, ma il mare è un grande ferito

Com’è profondo il mare. Appena dieci giorni fa un team internazionale di scienziati ha annunciato di aver scoperto e catalogato cinquemila nuove specie sottomarine che vivono nei fondali dell’area di Clarion-Clipperton in mezzo al Pacifico. Spugne, pesci, alghe, anemoni e un’infinità di invertebrati dalle forme più strane. Cinquemila. Praticamente abbiamo scoperto un nuovo mondo. Peccato che a luglio la Seabed Authority, l’autorità internazionale che coordina le regole di sfruttamento dei fondali marini, dovrà rispondere alle tante richieste delle aziende che vogliono “arare” minerali e metalli dai fondali dalla zona Clarion-Clipperton, devastando con il cosiddetto deepsea mining uno dei pochissimi ecosistemi ancora vergini del Pianeta. Non un gran modo per festeggiare la giornata degli Oceani, che ricorre ogni 8 giugno per ricordarci non solo quanto il mare sia profondo, ma anche ferito.

«Gli oceani sono un Far West: ancora oggi tutti possono farci qualsiasi cosa», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento della onlus Greenpeace. «Abbiamo bisogno di moratorie, come quella contro lo sfruttamento minerario dei fondali, e l’Italia è uno dei 36 membri del consiglio della Seabed authority che può fare la differenza. E abbiamo bisogno di accordi e leggi internazionali precise e rispettate».

In questo senso c’è una buona notizia che è arrivata proprio negli ultimi mesi: dopo decenni di trattative, la comunità internazionale a marzo è riuscita a d accordarsi per il Trattato dell’Alto mare. Entro il 2030 il 30% delle acque internazionali deve diventare area protetta. Il documento è pronto, ora va ratificato dai singoli Stati (e anche qui l’Italia può giocare un ruolo importante, magari ratificandolo prima degli altri Paesi europei). Proteggere gli oceani significa salvare la biodiversità e garantire il corretto funzionamento dei tanti servizi ecosistemici che il mare ci offre. Il mare assorbe calore, assorbe la CO₂ prodotta in questi secoli di sfruttamento indiscriminato delle fonti fossili e restituisce in atmosfera circa il 50% dell’ossigeno che respiriamo. Bisogna proteggere le acque anche dalla plastica e della microplastica, che soffoca letteralmente la vita. La produzione di plastica vergine per il 2060 sarà cresciuta del 300% rispetto a oggi, spinta dai nuovi affari delle aziende degli idrocarburi, che convertiranno le loro attività verso il petrolchimico.

«Oggi solo l’8% dei mari del mondo è area protetta, la strada è ancora lunga», continua Ungherese. «E non è una questione solo di numeri. Sentiamo parlare di zone protette, ma spesso si tratta di santuari di carta, tracciati solo sulle mappe. Tra mar Ligure e mar Tirreno si trova il Santuario dei Cetacei, per esempio, che dovrebbe essere difeso ma poco viene fatto».

Rating 3.00 out of 5

L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»

venerdì, Maggio 26th, 2023

di ORIANA FALLACI

Il colloquio di Henry Kissinger con Oriana Fallaci del 1972, di cui il diplomatico poi si pentì e disse: «La cosa più stupida della mia vita»

L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»
Henry Kissinger ritratto nei primi anni Settanta nel suo ufficio alla Casa Bianca (Ap)

Il più grande diplomatico del XX secolo: Henry Kissinger compie 100 anni. Nato tedesco, arriva negli Usa nel 1938. Da segretario di Stato è l’artefice del disgelo con la Cina. Premio Nobel per la Pace nel 1973. Qui sotto, la storica intervista di Oriana Fallaci, realizzata nel 1972.

Quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato, che chiamavano Superman, Superstar, Superkraut, e imbastiva alleanze paradossali, raggiungeva accordi impossibili, teneva il mondo col fiato sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard. Questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che s’incontrava con Mao Tse-tung quando voleva, entrava nel Cremlino quando ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e gli entrava in camera quando lo riteneva opportuno. Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe. Lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger? […]

La sua biografia è oggetto di ricerche che rasentano il culto e tutti si sa che è nato a Furth, in Germania, nel 1923, figlio di Luis Kissinger, insegnante in una scuola media, e di Paula Kissinger, massaia . Si sa che la sua famiglia è ebrea, che quattordici dei suoi parenti morirono nei campi di concentramento, che insieme al padre e alla madre e al fratello Walter fuggì nel 1938 a Londra e poi a New York, che a quel tempo aveva quindici anni e si chiamava Heinz, mica Henry, e non sapeva una parola d’inglese. Ma lo imparò molto presto. Mentre il padre faceva l’impiegato in un ufficio postale e la madre apriva un negozio di pasticceria, studiò così bene da essere ammesso a Harvard e laurearsi a pieni voti con una tesi su Spengler, Toynbee e Kant, poi diventarvi professore. Si sa che a ventun anni fu soldato in Germania, dove era con un gruppo di GI selezionati da un test e giudicati così intelligenti-da-sfiorare-il-genio, che gli affidarono per questo (e malgrado la giovane età) l’incarico di organizzare il governo di Krefeld, una città tedesca rimasta senza governo. Infatti a Krefeld fiorì la sua passione per la politica: una passione che avrebbe appagato diventando consigliere di Kennedy, di Johnson, e poi assistente di Nixon. Non a caso potevi considerarlo il secondo uomo più potente d’America. Sebbene alcuni sostenessero che era molto più, come dimostrava la battuta che al tempo della mia intervista circolava a Washington: «Pensa cosa succederebbe se morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati Uniti…».

Quindi l’uomo restava un mistero, come il suo successo senza paragoni. E una ragione di tale mistero era che avvicinarlo, comprenderlo era difficilissimo: di interviste individuali non ne dava, parlava solo alle conferenze-stampa indette dalla presidenza. Così, giuro, non ho ancora capito perché accettasse di vedere me, appena tre giorni dopo aver ricevuto una mia lettera priva di illusioni. Lui dice che fu per la mia intervista col generale Giap, fatta ad Hanoi nel febbraio del sessantanove. Può darsi. Però resta il fatto che dopo lo straordinario «sì» cambiò idea e decise di vedermi a una condizione: non dirmi nulla. Durante l’incontro, a parlare sarei stata io e da quel che avrei detto egli avrebbe deciso se darmi l’intervista o no. Ammesso che ne trovasse il tempo. Il che avvenne davvero alla Casa Bianca, giovedì 2 novembre 1972, quando lo vidi giungere tutto affannato, senza sorrisi, e mi disse: «Good morning, miss Fallaci». Poi, sempre senza sorrisi, mi fece entrare nel suo studio elegante e pieno di libri, telefoni, fogli, quadri astratti, fotografie di Nixon. Qui mi dimenticò mettendosi a leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’ imbarazzante restarmene lì in mezzo alla stanza, mentre lui leggeva il dattiloscritto e mi voltava le spalle. Era anche sciocco, villano da parte sua. Però la cosa mi permise di studiarlo prima che lui studiasse me.

E non solo per scoprire che non è seducente, così basso e tarchiato e oppresso da quel testone di ariete: per scoprire, ecco, che non è affatto disinvolto, né sicuro di sé. Prima di affrontare qualcuno, egli ha bisogno di prendere tempo e proteggersi con la sua autorità. […] Al venticinquesimo minuto circa, decise che avevo passato gli esami. Forse mi avrebbe dato l’intervista. […] E alle dieci di sabato 4 novembre ero di nuovo alla Casa Bianca. Alle dieci e mezzo entravo di nuovo nel suo ufficio per incominciare l’intervista più scomoda, forse, che abbia mai fatto. Dio che pena! Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, ossequioso, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco. Poi, proprio sul più bello, mentre egli mi denunciava l’essenza inafferrabile del suo personaggio, uno dei telefoni squillò di nuovo. Era di nuovo Nixon e: poteva il dottor Kissinger passare un attimo da lui? Certo, signor presidente. Scattò in piedi, mi disse di aspettarlo, avrebbe cercato di darmi ancora un po’ di tempo, uscì. E così si concluse il mio incontro. […]

Rating 4.00 out of 5

Il pericolo che la Cina si chiuda e non capisca l’Occidente

venerdì, Maggio 26th, 2023

di Federico Rampini

Perché Xi sembra incapace di interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a orrende caricature? L’Europa spera che le prove di disgelo funzionino, ma farà bene a prepararsi una polizza assicurativa

Sono in corso le prove di un disgelo tra America e Cina. L’Europa fa il tifo perché avvenga. Le delegazioni delle due superpotenze si sono incontrate per parlare di commercio, per la prima volta da quando l’incidente del pallone-spia aveva bloccato i contatti ad alto livello. Gli strateghi della politica estera di Washington e Pechino si sono parlati per otto ore a Vienna. Alcuni «falchi» della politica estera americana sono andati in pensione. Alla Casa Bianca c’è chi pensa che anche nella squadra di Xi Jinping stia prevalendo una corrente più morbida. Joe Biden capisce che una distensione con la Repubblica Popolare sarebbe un dono gradito agli europei, Germania e Francia in testa. Dopotutto, Bernard Arnault è diventato l’uomo più ricco del mondo perché le vendite di Lvmh sono esplose nella Cina post-Covid.

C’è il rischio che le speranze vadano deluse. I prudenti approcci tra americani e cinesi vanno confrontati con la spettacolare luna di miele fra Pechino e Mosca, con delegazioni ai massimi livelli che firmano accordi in ogni campo. Xi Jinping ha questa visione sull’Ucraina: può darsi che Putin abbia sbagliato tutto, può darsi che la Cina paghi dei prezzi per averlo appoggiato, però adesso Pechino deve impedire che la Russia venga sconfitta. Una disfatta militare di Putin renderebbe più credibile il dispositivo delle alleanze americane nel Pacifico, sarebbe un colpo alla Cina nella sua sfera geopolitica primordiale. Xi ha una teoria dell’accerchiamento che riecheggia quella di Putin: la «trappola ucraina» ordita dagli americani contro i russi sarebbe pronta a replicarsi in Asia contro i cinesi. L’idea di un Occidente dominato dall’America che trama per schiacciare la Repubblica Popolare è ormai dominante sui media del regime comunista. Noi occidentali, ancora intrisi di colonialismo e imperialismo, vorremmo ricacciare la Cina là dov’era a metà dell’Ottocento, quando ebbe inizio con le guerre dell’Oppio il suo «secolo delle umiliazioni». Se qualche lettore si sente un po’ stretto in questa descrizione della mentalità occidentale nel 2023, è in buona compagnia.

Noi dobbiamo superare una visione del mondo ancora troppo occidento-centrica, abbiamo lacune di conoscenza sulla Cina, e dobbiamo fare spazio alle sue aspirazioni legittime. Però è attuale una domanda inversa: quand’è che i dirigenti comunisti di Pechino hanno smesso di capirci? Perché Xi sembra incapace di interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a orrende caricature? La Cina di Deng Xiaoping uscì dal trentennio tragico del maoismo studiando con attenzione i modelli altrui: Giappone, America, Europa. Oggi Xi indottrina un miliardo e quattrocento milioni di persone perché abbiano un complesso di superiorità che è nemico della curiosità.

Il caso più recente è il pallone-spia. Come può Xi immaginare che Biden faccia ingoiare all’opinione pubblica il diritto di sorvolo dei cieli americani da parte dell’intelligence cinese? Idem per le bugie di Stato sul Covid e l’incapacità di Pechino di capirne l’impatto su di noi. L’elenco delle incomprensioni è ben più lungo e antico.

Rating 3.00 out of 5

Intelligenza artificiale e stupidità naturale

lunedì, Maggio 22nd, 2023

Vito Mancuso

Spesso un fenomeno lo si capisce analizzando il suo opposto e così, ragionando sull’intelligenza artificiale, è utile considerare la stupidità naturale. Lo faccio alla luce di due pagine straordinarie del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer scritte poco prima di essere arrestato dalla Gestapo (due anni dopo verrà impiccato per ordine di Hitler) e proprio nello stesso anno, il 1943, in cui due studiosi americani (McCulloch e Pitts) progettavano il primo neurone artificiale. Per Bonhoeffer la stupidità è «un nemico più pericoloso della malvagità» perché, mentre contro il male è possibile protestare e opporsi con la forza, contro di essa non si hanno difese, le motivazioni non servono a niente, dato che lo stupido è tale esattamente perché si rifiuta a priori di prendere in considerazione argomenti che contraddicono le sue convinzioni. Lo stupido, a differenza del malvagio, è soddisfatto di sé. Tentare di persuaderlo con argomentazioni è insensato, può essere anche pericoloso. Da qui un’acquisizione essenziale: la stupidità riguarda «non l’intelletto, ma l’umanità di una persona». Ci sono uomini molto dotati intellettualmente che sono stupidi e altri intellettualmente inferiori che non lo sono affatto.

Si comprende così che l’intelligenza è uno strumento a servizio di qualcosa di più prezioso. Di cosa, precisamente? A questa domanda oggi non siamo in grado di rispondere, il che significa che non sappiamo in cosa consiste la nostra essenza e quindi non sappiamo proteggerci a dovere.

Bonhoeffer intitolava il suo scritto “Dieci anni dopo”. Dopo che cosa? Dopo l’ascesa al potere di Hitler avvenuta nel 1933. Sorge quindi in me la seguente domanda: l’intelligenza artificiale prefigura un nuovo totalitarismo o è la liberazione finale dalla stupidità naturale quando non ci saranno più medici che sbagliano diagnosi e giudici che condannano innocenti perché al loro posto vi saranno robot umanoidi superperformanti? Di certo, non basta avere informazioni per essere intelligenti, e non basta essere intelligenti per non essere stupidi. Si può essere intelligentissimi, dotati di tutte le informazioni, e tuttavia cadere preda della stupidità che non riguarda l’intelligenza ma l’umanità.

Per questo non è detto che l’intelligenza artificiale segni l’arrivo di un’epoca in cui la stupidità naturale sarà finalmente superata grazie all’efficienza della macchina umanoide, con l’inizio di una nuova era planetaria: prima Olocene, oggi Antropocene, domani la radiosa Mechanocene. Nella nuova efficientissima era delle macchine a forma di uomo dominata dall’intelligenza artificiale e persino dalla “coscienza” artificiale, non è detto che la stupidità verrà definitivamente eliminata, visto che ci sono ignoranti per nulla stupidi ed eruditi completamente tali. Torna quindi la domanda: come si chiama quella dimensione rispetto a cui l’intelligenza è al servizio e che è la nostra più preziosa ricchezza?

Gli antichi greci la chiamavano Sophía, i latini Sapientia, gli ebrei Hokmà, altre civiltà in altri modi. Per attingerla e coltivarla dentro di sé non servono macchine ma silenzio, voglia di studiare, amore del vero. Servono le quattro virtù cardinali elencate per primo da Platone: saggezza, giustizia, forza, temperanza. Chi oggi le insegna, chi le conosce?

Rating 3.00 out of 5

Il patetico teatrino

domenica, Maggio 21st, 2023

Andrea Malaguti

Storia amara di libertà negate, di insulti e di violenza. Eugenia Roccella, ministra-strega-cattiva e suppostamente antiabortista sale sul palco della Regione al Salone del Libro e gli attivisti(e) di “Extinctiotn Rebellion” e “Non una di meno” le gridano addosso come se fosse un nemico da tacitare e umiliare (magari perché, nella spirale dell’incomprensione acida, anche loro si sentono tacitate e umiliate). Va da sé che non si fa, perché un conto è la protesta e un altro è la prevaricazione, anche se dall’altra parte c’è la rappresentante di un governo di destra-destra che sui diritti civili tende a medioevalizzare piuttosto che ad allinearsi alla tanto invocata civiltà Occidentale.

Roccella contestata al Salone del libro, Montaruli contro Lagioia: “Vergognati”

Per chi avesse dubbi, chiedere al preoccupato premier canadese Justin Trudeau. Roccella reagisce con stile, chiede alle forze dell’ordine di non portare via nessuno (applausi) e invita i ribelli sul palco. Una di loro ci va. Roccella dice: prego parla. E lei parla, ma non dialoga. E quando la ministra-strega-cattiva prova a riprendersi il turno, viene ancora sommersa dalle grida. Sbagliato e, certo, inaccettabile come sostiene una premier che dovrebbe interrogarsi sulle proprie difficoltà a fare i conti col dissenso. Qualcuno invoca il direttore (uscente) del Salone, Nicola Lagioia. Non essendo ubiquo e tanto meno Superman con la responsabilità del servizio d’ordine di questa gigantesca fiera stracolma di gente, Lagioia si presenta appena può. Dice: «Protestare è il sale della democrazia, ma lasciatela parlare». Intervento di buonsenso che non risolve la questione, ma spinge la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli a gridargli le peggio cose. «Vergognati, suoneremo i tamburi quando te ne andrai». Lo vuole in esilio. Allontanato con piume e pece. Lagioia la guarda esterrefatto, senza neanche sapere che l’indignata e molto onorevole accusatrice è stata appena condannata a un anno e sei mesi per avere comprato Swarovsky, vestiti e borse firmate con soldi pubblici. Come direbbe Bartali: è tutto sbagliato, è tutto da rifare.

Rating 3.00 out of 5

Il (solito) grande scontro per il piccolo schermo

sabato, Maggio 20th, 2023

di Antonio Polito

Stupisce che dopo trent’anni di bipolarismo il confronto in Italia sia ancora fondato sul sospetto reciproco e sulla mutua negazione della legittimità altrui

Per l’utente, in fin dei conti, cambia davvero poco. Chi ama la televisione di Fabio Fazio, e sono tanti, dovrà solo premere il tasto 9 invece che il tasto 3 sul telecomando. Il pluralismo delle voci, un tempo ricercato all’interno di un unico contenitore pubblico, la Rai, oggi è garantito dalla pluralità delle emittenti, a conferma che il mercato è amico della libertà di espressione. Ironia della sorte: stavolta è stata una multinazionale americana, la Warner Bros, a dare un contratto al beniamino della sinistra italiana. Ma se una logica commerciale fosse stata seguita anche dai nuovi azionisti di maggioranza della Rai, non avrebbero certo rinunciato a un cespite aziendale, cedendolo alla concorrenza, visto che i programmi di Fazio hanno ascolti e introiti pubblicitari che difficilmente garantiranno i sostituti.

Serve dunque qualcos’altro a spiegare perché questo addio e il collegato cambio della guardia nel management dell’azienda siano stati vissuti nel nostro dibattito politico drammaticamente, quasi come una ripetizione del conflitto del 25 Aprile. A destra quella data è stata anzi apertamente evocata: il tweet di Salvini ritorceva con un «Belli, ciao» indirizzato a Fazio e Littizzetto il «Bella, ciao» intonato dall’antifascismo militante contro Giorgia Meloni e il suo governo. Mentre a sinistra il 25 Aprile è stato implicitamente invocato, alzando di nuovo l’allarme democratico per il regime televisivo in arrivo, fatto di censura e soppressione delle libertà, in una parola un Minculpop.

Non sarebbe facile spiegare a uno straniero come mai qui da noi la televisione e i suoi programmi, non solo di informazione ma anche quelli di intrattenimento e di svago, siano diventati un vero e proprio elemento della Costituzione materiale del Paese, al punto da accendere conflitti politici di prima grandezza; e perché mai la Rai rappresenti il Sacro Graal di ogni maggioranza, lo scalpo cui non si può rinunciare dopo aver vinto una battaglia elettorale.

Ci sono ragioni storiche, ovviamente. In un Paese che è arrivato tardi all’alfabetizzazione di massa (e che sta rapidamente regredendo a un nuovo analfabetismo di ritorno), la televisione ha rappresentato fin dagli inizi una formidabile agenzia di formazione delle coscienze e dei comportamenti. Ha forgiato gli italiani del Dopoguerra, un po’ come il libro Cuore formò gli italiani dopo l’Unità, trasformandosi in un vero e proprio collante della Nazione, definendone il gusto e la lingua. Il declino delle altre grandi agenzie formative, dalla scuola alla Chiesa ai partiti di massa, ha fatto il resto: ancora oggi, in tempi di streaming, la tv generalista resta il modo più efficace di creare un evento, di affermare un’idea, di lanciare una suggestione.

Rating 3.00 out of 5

La destra al Salone

venerdì, Maggio 19th, 2023

Claudia Luise Miriam Massone

Torino. L’ultima edizione del direttore Nicola Lagioia (per lui l’applauso più lungo) è anche la prima per la destra sovranista al potere. Il Salone del libro apre la 35ª edizione Oltre lo specchio, ispirata all’Alice di Lewis Carroll, in un clima plumbeo come il cielo di Torino. Qualcosa è cambiato. E si vede. L’inaugurazione ne è la prova: quest’anno i riflettori non si condividono, prima c’è la parata politica, poi la lectio del premio Nobel Svetlana Aleksievič. Così, mentre lei parla in collegamento video, il presidente del Senato Ignazio La Russa assieme all’“amico” Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura («Ti ricordi – gli si rivolge dal palco del Lingotto – quando Pinuccio Tatarella ci diceva “Ragazzi, dovete leggere Prezzolini e Papini”») costretto ad accelerare per stargli al passo, zigzagano tra gli stand istituzionali a dispensare strette di mano. Indossano i cappellini della Difesa con l’hashtag #unaforzaperilpaese, mandano messaggi di solidarietà all’Emilia, istruiscono gli studenti («Dovete ricordarvi ogni giorno della Protezione civile»). La Russa “scippa” anche la coroncina dalla testa di un bambino in gita e se la mette a favore di flash, poi lo ringrazia con un bacio affettuoso (lui si gira e chiede: «Ma chi è questo?»). C’è ancora tempo per fare irruzione in una diretta Rai (con foto ricordo assieme a Luca Sardella e il suo libro Una pianta per amica) e un selfie con la nuotatrice paralimpica delle Fiamme Oro Giulia Ghiretti.

La destra di governo cerca di mettere la bandiera sull’evento culturale più importante del Paese e prova a imporre una narrazione sua, ad affermare il modello conservatore come alternativo a quella che considera la “dittatura della sinistra”. Lo rivela la ribalta dei saluti ufficiali, ma anche il retroscena della lounge allestita all’Oval: a quattro anni dalla cacciata dal Salone dell’editore Altaforte, per la sua vicinanza a CasaPound, il ministro Sangiuliano è accompagnato da Emanuele Merlino, capo segreteria tecnica e autore di volumi sulle Foibe e sul patriottismo, oltre che presidente del Comitato “10 febbraio” e responsabile culturale di Fdi, e poi da Francesco Giubilei, consulente e creatore del think tank Nazione futura, editore dell’ultimo libro di Alain De Benoist, nome di punta della cultura conservatrice, dall’assessore piemontese di Fdi Maurizio Marrone (che con Sangiuliano ha un filo diretto: «L’attenzione istituzionale della destra per il Salone è più forte della polemica»).

Rating 3.00 out of 5

L’Europa, le regole fiscali e la sovranità nazionale

martedì, Maggio 16th, 2023

di Alberto Mingardi

Chi contesta le norme Ue spesso punta ad aumentare la spesa pubblica. Nonostante la Costituzione

Nella nostra Costituzione c’è l’articolo 81. Nella formulazione originaria, prevedeva che per ogni nuova spesa il legislatore indicasse chiaramente come l’avrebbe finanziata. Dopo la riforma del 2011, prescrive l’equilibrio di bilancio; non anno per anno, ma nel corso del ciclo economico: in sostanza mettere fieno in cascina nella fase espansiva per poter spendere in quella recessiva. Diciamo che non è il più fortunato degli articoli della Carta. Sostanzialmente è lettera morta. Però ne fa parte e se la nazione che siamo si definisce attraverso quel documento, il pareggio di bilancio fa parte delle regole che ci siamo dati.

Invece in queste settimane la discussione sulla revisione del patto di Stabilità è tutta un marcare il territorio. Tornano gli argomenti che nel 2018 avevano riempito la campagna elettorale più antieuropeista della storia. La moneta unica sarebbe una camicia di forza (se non proprio un complotto ordito da francesi e tedeschi ai nostri danni), le regole fiscali una minaccia per la sovranità nazionale.

Da allora il Covid 19 e la risposta congiunta data dai Paesi Ue hanno stemperato certi toni. Ma i trasferimenti, che poi sono diventati il Pnrr, rispondono alla logica di un momento eccezionale, quello della pandemia con tutte le sue conseguenze, e non possono diventare la normalità in una costruzione sovranazionale eterogenea come l’Ue e l’area euro. Se essa diventasse davvero una «unione di trasferimenti» (come l’Italia, dove ogni anno imposte pagate al Nord finanziano spesa nel Mezzogiorno), sarebbe destinata a deflagrare fra i conflitti: Nord e Sud, frugali e prodighi, litigherebbero ben di più di quanto non abbiano fatto finora.

Le regole fiscali sono inevitabili per la buona amministrazione del club europeo, perché la moneta unica ci obbliga a un minimo di disciplina condivisa. Si tratta di strumenti imperfetti: sono destinate a essere ancorate a numeri «stupidi» come diceva Romano Prodi, nel senso di arbitrari. Ma lo schema di cui si parla è più flessibile che in passato, soprattutto rispetto all’obiettivo di riduzione del debito, e prevede un target di spesa pubblica per i diversi Paesi. Un «numero» più facile da comunicare anche al grande pubblico e che definisce quanta parte dell’attività economica di un Paese è controllata e gestita dallo Stato.

In Italia le regole fiscali sono contestate da più parti perché minerebbero la sovranità nazionale. Ma non fa parte della sovranità nazionale l’articolo 81? E se i nostri governanti e parlamentari, nel corso degli anni, si sono dimostrati allegramente indifferenti rispetto al contenuto della Carta, è una minaccia che in qualche modo l’Europa ci aiuti a darvi attuazione? O forse la nazione, che non coincide col suo ceto politico, ha bisogno di un gatto che prenda i topi, indipendentemente dal passaporto?

Il sospetto è che dietro tante rivendicazioni della nostra sovranità nazionale stia solo una cosa: un pregiudizio favorevole alla spesa pubblica. Anche a prescindere da qualsiasi valutazione ponderata dei suoi effetti attesi.

A tutti piace annunciare, per esempio, un aumento dell’occupazione in ragione della maggiore spesa. Lo si fece per Quota 100. L’argomento, caro alla destra, era che mandando prima in pensione le persone si sarebbe fatto posto per nuovi lavoratori. A ogni nuovo pensionato, dovevano corrispondere tre ingressi nel mondo del lavoro. Peccato che se aumentano i pensionati attuali si fanno anche più gravosi — direttamente o indirettamente — i contributi, aumenta il costo del lavoro, diminuisce pertanto l’incentivo ad assumere.

Rating 3.00 out of 5

Roma, blitz degli eco-teppisti a Piazza Navona: ennesimo sfregio alla cultura

domenica, Maggio 7th, 2023

Silvana Tempesta

Nuovo assalto, e nuovo sfregio, degli ambientalisti di «Ultima Generazione» che intorno alle 15.30 del primo, affollatissimo, sabato di maggio hanno colorato di nero l’acqua della Fontana dei Quattro Fiumi. Immediato l’intervento dei carabinieri. Una replica di quanto accaduto circa un mese fa alla Barcaccia di piazza di Spagna al grido di «il nostro futuro è nero come quest’acqua: senza acqua non c’è vita e con l’aumento delle temperature siamo esposti alla siccità, da un lato, e alle alluvioni, dall’altro. Acqua che manca per coltivare il cibo, acqua che cade tutta insieme distruggendole case. Ci aspettano anni difficili, ma se non azzeriamo le emissioni subito saranno terribili». Immediata l’indignazione delle istituzioni, a cominciare dal sindaco Roberto Gualtieri che dopo aver rassicurato che la Fontana del Bernini «non ha subito danni permanenti» ha duramente condannato «insensato sfregio» sottolineando come «le lotte giuste diventano sbagliate se danneggiano i beni comuni. Non è mettendo a rischio il patrimonio artistico che si salva l’ambiente».

Pesante anche l’assessore capitolino alla Cultura, Miguel Gotor: «Gli ecoidioti colpiscono ancora. Ribadiamo sdegnati che i monumenti non sono palcoscenici in cui mettere in scena spettacoli surreali ma opere delicate e senza tempo da trattare con tutt’altro rispetto». Nel condannare lo sfregio al monumento il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano ha auspicato «che il Parlamento approvi quanto prima le nuove norme contro gli eco-vandali». Richiede pene più severe anche l’assessore alla Cultura della Regione, Simona Baldassarre, mentre in serata è ancora il sindaco Gualtieri a rassicurare sui danni.

Rating 3.00 out of 5

La società dei consumi e quel male oscuro chiamato isolamento che soffoca i più fragili

venerdì, Maggio 5th, 2023

Massimo Recalcati

Sappiamo che esiste una forza e una poesia nella solitudine. Sappiamo che senza la «capacità di restare solo», come si esprimeva un grande psicoanalista come Winnicott, non si dà alcuna possibilità di generare legami sociali fecondi. Sappiamo anche che nella solitudine l’Altro resta sempre presente, pur nella forma dell’assenza. È la solitudine che spesso accompagna la sublimazione artistica o quella spirituale che, come tali, sono esperienze altamente creative. Totalmente diversa appare invece la fisionomia dell’isolamento. Qui non c’è alcuna forza né alcuna poesia. Qui non c’è più nessun Altro, se non la spinta al suo azzeramento. Qui non c’è all’orizzonte alcuna esperienza creativa ma solo una mortificazione della vita. L’isolamento annienta, infatti, la dimensione sociale della nostra esistenza.

Mentre la solitudine può scaturire da una scelta vitale, l’isolamento appare piuttosto come una condizione subita, l’esito di una impossibilità di scegliere, di un naufragio, di una derelizione dell’esistenza. Nel nostro tempo l’isolamento è divenuto una vera e propria piaga sociale. Questo significa che la nostra condizione di vita che appare così più esposta agli stimoli e ai contatti sociali rispetto al passato, rischia di essere solo apparenza. In una società dove la vita media si è straordinariamente allungata, l’aumento della popolazione anziana si associa molto frequentemente al ritiro dai legami sociali, dalla comunità, dalla vita. Dato che si potenzia ulteriormente se lo si associa alle condizioni di precarietà economica e di fragilità soggettiva che spesso accompagna la vita dei nostri anziani. Con l’aggiunta tragica che l’aggressività darwinana del Covid li ha colpiti con particolare virulenza decimandoli letteralmente, esasperando la loro condizione di abbandono. Ma non sono solo gli anziani a sperimentare il laccio mortale dell’isolamento. Il circo della società dello spettacolo e dei consumi, dell’individualismo e del profitto, tende ad isolare tutti coloro che non sono in grado di sostenere un livello adeguato di prestazione.

L’isolamento diventa allora una sorta di prigione-rifugio che ripara dalle ferite e dalle umiliazioni imposte da una vita sociale concepita come una gara senza esclusione di colpi. Non a caso sono moltissimi i giovani che rinunciano alla loro libertà per appartarsi, per uscire fuori dalla giostra infernale di una vita obbligata a vincere. La terribile esperienza della pandemia ha esasperato questa tendenza che era però già presente in tutto l’Occidente. L’isolamento non colpisce solo anziani e giovani ai margini del ciclo produttivo, ma anche coloro che appaiono come dei suoi protagonisti. È, per esempio, l’isolamento di chi vive strenuamente impegnato nel proprio lavoro, ma che non è più in grado di coltivare legami generativi di nessun tipo. È l’isolamento di molti – uomini e donne – , che avendo consacrato la loro vita alla propria professione si accorgono di avere fatto terra bruciata attorno a se stessi.

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.