Archive for the ‘La Giustizia’ Category

Tracolla la fiducia nelle toghe. “Ora gli italiani hanno paura”

martedì, Gennaio 24th, 2023

Francesco Curridori

Lo scontro politico divampa attorno al tema della giustizia e le varie forze politiche si dividono di nuovo tra garantisti e manettari. I sondaggisti, invece, sono concordi su un dato incontrovertibile: gli italiani non credono più nella magistratura.

«Nel 1998, a cinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino, la fiducia nella magistratura era all’88%, nel 2010 scende al 66% e nel 2022 tracolla al 33%», afferma Carlo Buttaroni, fondatore dell’Istituto Tecné. «Vent’anni fa il giudizio era eccellente, ma poi è andato scendendo e si è passati da un 70% a circa il 40%. La gente ha più paura», gli ha eco Renato Mannheimer. Non si discosta molto da queste percentuali neppure Antonio Noto: «Nel 1993, durante Tangentopoli, – dice – la fiducia era al 77%, mentre oggi di ferma al 43%». Una conferma del tonfo del sentiment degli italiani per quanto riguarda il nostro sistema giudiziario arriva anche da Alessandro Amadori: «Nel 2010 il consenso era intorno al 60%, mentre oggi – rivela – si è praticamente dimezzato». A riportare in auge il tema della giustizia, in queste settimane, non sono state solo le prese di posizione del ministro Carlo Nordio, ma anche la cattura di Matteo Messina Denaro che ha portato ad accrescere la fiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Ma non solo. «Il giudizio cambia quando si parla dei magistrati esposti nella lotta alla criminalità organizzata perché vengono visti come degli eroi. E, anzi, si ha l’idea che la macchina della giustizia sia contro di loro», spiega Buttaroni. Sulle intercettazioni, invece, gli italiani si dividono: «C’è una larga prevalenza di cittadini che le ritiene necessarie per quanto riguarda i reati di mafia, terrorismo e corruzione, ma sottolinea il fondatore di Tecné – una grandissima maggioranza pensa che vi sia un abuso». Secondo Maurizio Pessato di Swg, su questo tema c’è ancora tanta confusione e «una larga parte dell’opinione pubblica non capisce su cosa si sta discutendo». Dagli esperti, poi, arriva un monito chiaro: la giustizia è percepita come importante nella misura in cui vengono perseguiti i reati e se i processi sono rapidi. «Insomma, la riforma del Csm non premia e non punisce nessuna forza politica», sintetizza Amadori. Detto ciò, la riforma della giustizia, da sempre una bandiera di Forza Italia, viene vista da tutti come necessaria. «Se all’inizio sembrava che servisse solo a Berlusconi, ora nel Paese è cresciuta l’esigenza di riformare la giustizia», spiega Buttaroni, convinto che questa battaglia contribuisce in maniera determinante a rafforzare la credibilità di Forza Italia: «Alla lunga, può valere uno o due punti percentuali».

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Giustizia tributaria, la riforma velocizzerà i processi

mercoledì, Agosto 10th, 2022

Redazione

Con il via libera definitivo della Camera si compie la riforma della giustizia tributaria, provvedimento legato all’attuazione del Pnrr per rendere più celeri i tempi e abbattere il contenzioso (50mila ricorsi pendenti nel 2020). Tra le diverse novità la riforma istituisce una nuova magistratura tributaria professionale che, progressivamente, sostituirà gli attuali magistrati onorari. In particolare, le commissioni tributarie provinciali e regionali diventeranno Corti tributarie di primo e secondo grado. I magistrati non saranno più onorari, ma è previsto un ruolo autonomo con 576 giudici tributari reclutati attraverso un concorso a cui potranno accedere non solo i laureati in giurisprudenza (come aveva stabilito il governo) ma anche quelli in economia. Una quota ristretta degli attuali giudici togati (100 di cui 50 provenienti dalla magistratura ordinaria e 50 dalle altre) potranno optare per il definitivo transito nella giurisdizione tributaria.

Le controversie di valore sino a 3mila euro (circa la metà dell’attuale contenzioso), saranno decise da un singolo giudice. Si rafforza la conciliazione giudiziale e viene definitivamente superato il divieto di prova testimoniale. Per le controversie pendenti al 15 luglio 2022, non superiori a 100mila euro e per le quali l’Agenzia delle Entrate risulta integralmente soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio, è prevista per i contribuenti la possibilità di chiedere, e ottenere, la definizione pagando una percentuale: 5% per controversie tra 50mila e 100mila euro, 20% per controversie fino a 50mila euro.

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Il dossier Falcone sulla mafia. Quella denuncia inascoltata

giovedì, Giugno 9th, 2022


Serena Sartini

Il dossier Falcone sulla mafia. Quella denuncia inascoltata

La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tiri di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l’altro: Buscetta, Pippo Calò, il corto Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. Ce l’ha con alcuni colleghi che pensano di conoscere la mafia meglio di lui, che cercano la Piovra fuori dalla Sicilia, uno dei tanti teoremi senza prove che hanno ostacolato la lotta a Cosa Nostra. E invece «epicentro della mafia – diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni – è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta.

Una lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. Lui che la criminalità organizzata la combatteva giorno dopo giorno; lui che aveva cominciato a smantellarne i cardini. Lui che ripeteva che «l’organizzazione di Cosa nostra è qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, che tutto il resto diventa un fatto automatico».

È un Falcone appassionato ed emozionato allo stesso tempo, in cui emerge la sua umanità e il suo amore per quel lavoro, quello della ricerca della verità e della giustizia. Nel trentennale dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio, in cui persero la vita lo stesso Falcone e poi Paolo Borsellino, riemerge un audio di straordinaria attualità, diffuso in un podcast dell’agenzia askanews dal titolo «Falcone: le parole inascoltate».
Nel colloquio con i «suoi» uomini, emergono tutta la professionalità, la fermezza e la capacità investigativa del magistrato. «Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia altrove togliamocelo dalla testa – diceva il magistrato, che nel 1989 era giudice istruttore a Palermo -. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo in particolare».

Tracciava una «organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». Il linguaggio pacato ma allo stesso tempo deciso, con il suo accento marcatamente siciliano; lunghe pause quasi a scandire ogni singola parola. E poi le sue amate sigarette.
«Se non si comprende che questo tipo di organizzazione a raggiera produce certi risultati – ammoniva – questi risultati appaiono inspiegabili. Ecco perché mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie». E proprio nel «momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità, la capacità di agire unitariamente di Cosa nostra, ancora continuiamo a parlare esattamente del contrario?».

Per il magistrato, simbolo della lotta alla mafia, lo spaccio di stupefacenti rappresentava solamente una minima attività di Cosa nostra. «C’è la necessità di rendersi conto che quando si parla ad esempio di traffico di stupefacenti come una delle più lucrose attività di Cosa nostra – denunciava – si è portati a ritenere che tutta Cosa nostra si occupi di traffico stupefacenti. Non è vero. Ci sono solo alcune fette importanti di membri di Cosa nostra che, collegati in diverso modo con personaggi non mafiosi o anche stranieri, gestiscono in tutto o in parte determinate linee del traffico di stupefacenti».

«Io mi ricordo che agli inizi, ora per fortuna non più – racconta – colleghi peraltro validissimi di altre parti d’Italia pensavano di venire qui ad insegnare a noi come si fanno le indagini e dirci cosa è la mafia. Colleghi che pensavano che dal piccolo trafficante o dallo spacciatore, risalendo a ritroso la catena dei passaggi sicuramente sarebbero risaliti al laboratorio di eroina… Obiezioni che mi sento dire spesso anche nei salotti di Roma…basta seguire e ci si arriva. E invece più si va avanti nelle indagini e più ci si rende conto dell’estrema complessità».
Racconta Falcone di alcune vicende che lo hanno riguardato in prima persona. Come quando è andato a interrogare Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, dopo la sua deposizione al processo della pizza Connection. «Era in particolare stato di prostrazione psichica – racconta il magistrato – e io chiesi che cosa fosse successo. Rispose che dall’oggi al domani le persone che qualche mese prima del suo esame gli stavano accanto, non gli rivolsero più la parola».

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Toghe e informazione, il bavaglio non esiste

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Armando Spataro

Il corretto rapporto tra giustizia e informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia, mentre la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il Csm ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari «ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi. Alcuni, a partire da Paolo Colonnello su La Stampa, hanno parlato di un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedimenti penali.

Non si può ovviamente accettare alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. È innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte. Ma l’allarme – bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezioni motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentato la creazione di magistrati-icone, non a caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però anche eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici ed i giornalisti. È virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati – diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato.

Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comunue appartenenza partitica o per parentela e amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazioni inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti. Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo ed il diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i responsabili dei reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili .

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L’Anm perde appeal: ha scioperato meno del 50% delle toghe. “Partecipazione mai così bassa, era prevedibile: i vertici dovrebbero dimettersi”

martedì, Maggio 17th, 2022

di Federica Olivo

“A Roma distretto pare sia sotto il 40%”, “Cassazione 102 su 449”, “Napoli 528 su 957”. Quando ancora mancava il quadro completo delle adesioni allo sciopero contro la riforma Cartabia, indetto dall’Associazione nazionale magistrati, le chat delle toghe si aggiornavano di continuo. Ed era già un pullulare di percentuali, di numeri, di commenti detti a bassa voce che, messi insieme, restituivano un solo dato: la partecipazione a questa giornata di protesta indetta dal sindacato delle toghe contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario è stata molto bassa. Stando ai dati che ha potuto consultare HuffPost, già dal pomeriggio era chiaro che moltissime corti d’Appello le adesioni non erano arrivate neanche al 50%. In serata, poi, il sindacato delle toghe ha sciolto la riserva. E il dato finale è molto più basso di quello anticipato, e chiaramente arrotondato per eccesso, dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Non ha scioperato il 63% dei magistrati, ma il 48%. Meno della metà. I vertici dell’associazione, attraverso le parole del numero due Salvatore Casciaro, cercando di indorare la pillola. Ma è chiaro che siamo di fronte a una sonora sconfitta. E che quell’80-85% raggiunto nell’ultimo sciopero – indetto del 2010, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi – è abissalmente lontano. Saranno cambiati anche i tempi, sarà cambiata la magistratura. Ma è chiaro che, per usare le parole dell’onorevole Enrico Costa – che oggi, insieme a Riccardo Magi ha tenuto una conferenza stampa contro lo sciopero e per la riforma – siamo di fronte a “un flop prevedibile”. 

Ma perché le toghe, pur mobilitate dall’Anm, hanno deciso di non scioperare? Lo abbiamo chiesto a Pasquale Grasso, ex presidente del sindacato dei magistrati, – era al vertice nel 2019, quando scoppiò il caso Palamara – che sin da subito aveva dichiarato di non voler partecipare all’iniziativa. “Siamo di fronte alla partecipazione più bassa nella storia degli scioperi dei magistrati”, osserva, parlando con HuffPost. E aggiunge: “Questo non vuol dire che la riforma sia positiva, o che raggiunga l’obiettivo che viene sbandierato o che, ancora, piaccia ai magistrati. Siamo di fronte a una riformicchia di bassissimo respiro, utile alla politica perché così può sbandierare un intervento legislativo purchessia, e utile anche alla magistratura associata perché così può dire di unirsi di fronte a un nemico. Ma la verità è che non siamo neanche al gattopardesco tutto deve cambiare perché nulla cambi. Perché in realtà questa riforma cambia pochissimo”.

Grasso non usa mezzi termini nei confronti dell’associazione che ha presieduto pochi anni fa. “La deliberazione dello sciopero dimostra lo scollamento tra i vertici e i componenti dell’Anm. Un responso così basso da parte degli associati è una sconfitta per l’appannata dirigenza. Quest’ultima vrebbe dovuto rendersi conto che con questo sciopero avrebbe recitato l’ennesima commedia dell’arte, con personaggi triti e ritriti. Salvo, poi, gettare la spugna con gran dignità”. Giudice a Genova, Grasso cita Fabrizio De Andrè per descrivere quello che lui chiama ‘uno sciopero per rappresentazione’. E si augura che questa “sconfitta eclatante” possa costituire l’occasione per “uscire dal canovaccio delle parti prestabilite e fare un passo laterale”.

Le parti cui fa riferimento sono quelle che giocano, da decenni, magistratura, avvocati e politica. Sempre in rotta di collisione, sempre a un passo dallo scontro. In uno spettacolo che si ripete e che, questa volta, deve essere parso talmente noioso che il pubblico era poco e la sala semivuota. “Dovremmo farci tutti un esame di coscienza – aggiunge il magistrato – perché questa guerra non è utile a nessuno. O, forse, è utilissima a tutti, ma solo per conservare i ruoli prestabiliti. Altrimenti, non si capisce come nessuna delle parti in causa si sia resa conto dell’inconsistenza di questa riforma”. Perché, è la tesi di Grasso, gli interventi legislativi che in questo momento sono sul tavolo della commissione giustizia del Senato non fanno né male, né bene alla magistratura. Semplicemente, non cambiano nulla.

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Referendum contro una giustizia che non va

sabato, Maggio 14th, 2022

Giannino della Frattina

(…) dove a comandare siano gli affiliati alle correnti di sinistra della magistratura e i loro complici in parlamento. Oppure il contrario. Ci pensino quelli che il 12 giugno, giorno dei referendum sulla giustizia, stanno già programmando le gite al mare perchè tanto votare non servirà a niente. O ancor peggio i sacerdoti che difendono l’ultima casta degli intoccabili. Perché è vero che i quesiti sono incomprensibili e la fiducia nella loro eventuale messa in atto è pari a zero, ma questo passa il convento e questo conviene ingollare. Almeno per il momento, sperando di dare quantomeno un segnale, di piantare un seme che possa fiorire in un Paese migliore da consegnare ai nostri figli e nipoti. Spes ultima dea. Oggi con un po’ di fiducia in più, dopo che ieri mattina nessuno avrebbe puntato un euro sull’uscita del governatore lombardo Attilio Fontana da quell’assurdità del cosiddetto processo camici. «Prosciolto perché il fatto non sussiste» ha sentenziato un gup, anzi una gup dal coraggio di leone (Chiara Valori) che, come ha detto il legale di Fontana, il principe del foro Jacopo Pensa, ha espresso «una manifestazione di giurisdizione come raramente avviene nell’udienza preliminare». E quindi nel proscioglimento «perché il fatto non sussiste», verrebbe voglia di mettere la lettera maiuscola a quel Fatto (quotidiano) che non sussiste davvero, pensando alla vergognosa campagna stampa orchestrata nel bel mezzo della pandemia contro la Regione e Fontana a cui nessuno ha restituito l’onore, perché lui (e la sua famiglia) quell’onore non l’hanno mai perso. Anzi, hanno dimostrato di quale stoffa siano fatti, mantenendo sempre un comportamento inappuntabile mentre giornali e trasmissioni Rai diretti e confezionati da militanti politici più che da giornalisti, rovesciavano loro addosso il peggio. C’è un giudice Milano. E ha seppellito di vergogna politici, magistrati e giornalisti di sinistra.

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Corte Costituzionale, illegittimo dare in automatico il cognome del padre ai figli

giovedì, Aprile 28th, 2022

di Alessandra Arachi

Lo hanno deciso mercoledì i giudici con l’ermellino stabilendo che la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori, salvo che decidano diversamente di comune accordo. Cartabia: «Passo avanti verso effettiva uguaglianza di genere»

Sono illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente soltanto il cognome del padre con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi. Lo ha deciso mercoledì la Corte Costituzionale con una sentenza che ha definito «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre» e ha precisato che «la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dei medesimi concordato, salvo che essi decidano di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due». «Grazie alla Corte Costituzionale, un altro passo in avanti verso l’effettiva uguaglianza di genere nell’ambito della famiglia», commenta la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia.

In attesa della sentenza — che sarà depositata nelle prossime settimane — dalla Consulta fanno sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale. È compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi a questa decisione.

Il caso è stato sollevato da una giovane famiglia lucana per una storia di tre fratelli, i primi registrati col cognome della madre e il terzo registrato automaticamente con il cognome nome del padre perché nato dopo il matrimonio tra i due genitori. I due genitori avrebbero voluto registrare con il cognome della madre anche il terzo figlio — per renderli tutti uguali — ma gli uffici comunali si sono opposti e i magistrati in primo grado hanno dato ragione al Comune. A sottoporre la vicenda alla Consulta, a novembre dell’anno scorso, è stata la Corte d’appello di Potenza dichiarando «rilevante e non manifestamente infondata» la questione di legittimità costituzionale delle norme in materia, sollevata dagli avvocati Domenico Pittella e Giampaolo Brienza che hanno commentato: «Storico risultato. La pronuncia della Corte Costituzionale sul cognome del nato rappresenta una piccola rivoluzione».

In Parlamento sono depositate cinque proposte di legge che prevedono che con un accordo tra genitori ci sia la possibilità di scegliere di attribuire un solo cognome, quello del padre o della madre o di entrambi cognomi nell’ordine che si ritiene. In caso di conflitto tra i genitori, tra le ipotesi c’è che il doppio cognome venga attribuito in ordine alfabetico.

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Cucchi, da Cassazione 12 anni ai due Carabinieri accusati del pestaggio: “Omicidio preterintenzionale”

martedì, Aprile 5th, 2022

di  Federica Olivo

Tredici anni, quindici gradi di giudizio, oltre 150 udienze. E la tenacia di una famiglia che, con una dignità esemplare, non si è mai arresa. Tanto ci è voluto per arrivare a scrivere la parola fine sulla morte di Stefano Cucchi. La corte di Cassazione ha confermato le condanne per omicidio preterintenzionale nei confronti di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i Carabinieri che, nella notte, tra il 15 e il 16 ottobre 2016 pestarono il giovane romano,che era stato arrestato con l’accusa di detenzione di stupefacenti. Stefano sarebbe morto pochi giorni dopo, il 22 ottobre, all’ospedale Pertini. I due Carabinieri sono stati condannati a 12 anni di carcere. E non 13, come deciso in Appello e chiesto dal pg della Cassazione.

Per Francesco Tedesco, il militare che  in aula aveva raccontato le fasi del pestaggio di Cucchi e indicato come autori materiali D’Alessandro e Di Bernardo, è stato previsto un Appello bis. Tedesco era stato condannato per falso e la sua condanna era stata confermata in appello. Nuovo Appello anche per il maresciallo Roberto Mandolini, anche lui condannato per falso. Su quest’accusa incombe il rischio di prescrizione, che scatterebbe a maggio.

La sentenza è arrivata a sera, dopo una lunga giornata d’attesa per i familiari e gli imputati. Ma la famiglia attendeva da 13 anni  ed ora sa che la giustizia ha sancito quello che da sempre Ilaria, la sorella di Stefano, e i genitori, Rita e Giovanni, avevano sempre sostenuto: il ragazzo è morto non per l’epilessia, come pure abbiamo dovuto leggere in una delle tante carte processuali, non perché aveva rifiutato le cure. Ma perché è stato picchiato. “Tutto qui è drammaticamente grave e concettualmente semplice. Eliminiamo le spinte, i pugni e i calci e domandiamoci se ci sarebbe stata la frattura della vertebra e la lesione dei nervi. La risposta è semplice: no”, ha detto, sintetizzando in pochi istanti quello che la famiglia con i suoi legali ha ripetuto per anni, Tomaso Epidendio, il procuratore generale della Cassazione che ha chiesto la conferma della condanna per D’Alessandro e Di Bernardo e un nuovo processo “limitatamente al trattamento sanzionatorio” per il carabiniere Francesco Tedesco. “Fu una via crucis notturna quella di Cucchi, portato da una stazione all’altra”, ha aggiunto il procuratore generale.

“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano”, ha detto la sorella Ilaria. “Possiamo dire – ha aggiunto – che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui”. E al fratello, per il quale ha combattuto per 13 anni manda un messaggio: “Te l’avevo promesso”.

La vicenda processuale, come anticipato, è stata lunghissima. E alla sbarra per tanti anni ci sono state persone che poi si sono rivelate innocenti. Nel gennaio 2011, quando Stefano era morto da poco più di un anno, la gup Rosalba Liso aveva rinviato a giudizio dodici persone: tre agenti penitenziari per lesioni personali, cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini e tre infermieri per abbandono di persona incapace. A giudizio anche un medico, per abuso d’ufficio e falso.

Il gup aveva inflitto in rito abbreviato 2 anni di reclusione a Claudio Marchiandi, il funzionario dell’ufficio dei detenuti e del trattamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) che rispondeva di abuso d’ufficio, falso e favoreggiamento. Quest’ultimo fu assolto già in primo grado “perché il fatto non sussiste”. In seguito furono assolti anche gli agenti penitenziari e gli infermieri. I medici, invece, furono condannati a pene tra gli 8 e i 12 anni di carcere, per poi essere assolti in appello. Per i sanitari fu fatto un processo bis che è finito con un’assoluzione e quattro posizioni prescritte. Ma proprio nel giorno in cui veniva posta la parola fine a quello che uno degli imputati definì, voce non isolata, processo farsa, nell’aula bunker di Rebibbia veniva scritto un capitolo fondamentale di questa storia.

Era il 14 novembre 2019. Era il giorno della sentenza nei confronti dei Carabinieri. Si era arrivati fin lì grazie a un’inchiesta del pm Giovanni Musarò, che aveva ripreso le carte in mano e ricostruito pezzo dopo pezzo tutta la storia. Grazie a un lavoro meticoloso, ma anche alla testimonianza di Riccardo Casamassima, appuntato dei Carabinieri che riferì al pm le confidenze che gli aveva fatto un altro imputato, il maresciallo Roberto Mandolini: “È successo un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo hanno massacrato”, aveva detto all’appuntato, secondo il suo racconto. Mandolini è poi stato condannato in primo grado a tre anni e otto mesi per falso. In primo grado D’Alessandro e Di Bernardo erano stati condannati a una pena di 12 anni, per omicidio preterintenzionale. Un anno in meno rispetto all’appello. Durante quel processo Francesco Tedesco, imputato anche lui per omicidio oltre le intenzioni, decise di rompere il muro dell’omertà. Parlò, accusò i due colleghi. Nel corso di un’udienza successiva strinse la mano a Ilaria Cucchi e le telecamere, lontane dai protagonisti, ripresero il suo labiale: “Mi dispiace”. Una frase pronunciata a dieci anni dalla morte di Stefano, ma comunque di grande valore. Perché da quel momento le cose hanno preso la piega processuale che la famiglia aveva sempre sperato. Fino ad arrivare alla sentenza di oggi. 

In parallelo, intanto, si è svolto un altro giudizio, dedicato ai depistaggi che hanno allontanato la verità. Il primo grado si concluderà il 7 aprile. Il pm ha chiesto la condanna di otto Carabinieri. Quel processo, indipendentemente dall’esito, potrà proseguire. Questo no, se non per rideterminare la pena di Tedesco. La verità processuale è scritta nella conferma della condanna per D’Alessandro e Di Bernardo, in una sentenza che diventerà definitiva.

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Carlo De Benedetti, “Salvini antisemita”? Assolto. Sallusti: la giustizia italiana da ribaltare con una ruspa

giovedì, Marzo 17th, 2022

Alessandro Sallusti

Siamo a un passo dalla guerra e alle prese con una conseguente grave crisi economica, a ore sapremo che cosa intende fare il governo per arginare l’impazzimento delle bollette energetiche. Stando a ciò che trapela da Palazzo Chigi, per i cittadini contribuenti non tira una bella aria ma siamo speranzosi di doverci ricredere. Di fronte a problemi che toccano così profondamente le nostre libertà e le nostre tasche ogni altra notizia appare marginale, tipo quella che il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, ieri ha alzato le barricate per impedire che la riforma della giustizia in corso di discussione in parlamento vada in porto e tolga alcune armi improprie che i magistrati da anni usano impunemente per colpire avversari politici e interferire sul corso della democrazia.Senza quindi voler nulla togliere alla gravità e pericolosità del momento restiamo convinti che questo, guerra o non guerra, non sarà mai un paese normale se non metterà fine all’anomalia della sua giustizia. L’ultimo caso che lascia perplessi è accaduto ieri: il giudice del tribunale di Cuneo, Emanuela Dufour, ha assolto Carlo De Benedetti dall’accusa di diffamazione nei confronti di Matteo Salvini che aveva pubblicamente definito “un antisemita” perché il fatto non costituisce reato. Ora, l’antisemitismo non è una opinione come altre, è un reato punito dal nostro codice penale (articolo 604 bis) da due a sei anni di carcere, reato ovviamente mai contestato al leader della Lega.

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Rivalsa impossibile sulle toghe che sbagliano. La casta resta impunita: 8 condanne in 11 anni

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Stefano Zurlo

Si contano sulle dita di due mani. Otto condanne in 11 anni. Briciole, quasi elemosine. Con tutto il rispetto, un’offesa verso i cittadini che si sono visti calpestare nei loro diritti e verso la collettività che chiede giustizia. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati non funziona anche se un referendum, nell’87, aveva annunciato fra squilli di tromba il vento del cambiamento. I sì raccolsero l’80,2% e tutti immaginavano quel che poi puntualmente non è successo. La corporazione non si tocca. Nell’88 con la legge Vassalli viene introdotto un meccanismo risarcitorio, ma è indiretto: il cittadino propone la condanna dello Stato e poi sarà quest’ultimo, semmai, a rivalersi sulla toga che ha commesso errori imperdonabili.

Non si tratta di punire in modo astratto, ma di colpire situazioni obiettivamente vergognose se non inguardabili. Un esempio? Ha fatto scuola la storia di Marianna Manduca che a Caltagirone aveva denunciato il marito violento dodici volte e poi è stata uccisa. Si possono ignorare dodici campanelli d’allarme?

Arrivare a una sanzione è impresa difficilissima. Parliamo di undici condanne dello Stato fra il 2010 e il 2021, ma nessuno sa se ci sia stato il secondo passaggio. Le toghe che hanno dovuto mettere mano al portafoglio sono ancora meno e si avvicinano allo zero.

Surreale. E, peggio, ora par di capire che la Consulta si sia attaccata proprio al passato per mantenere lo status quo; poiché c’è sempre stata la responsabilità indiretta ora non si può per via referendaria passare a quella diretta: il cittadino contro la toga. «Sarebbe – ha spiegato il Presidente della Consulta Giuliano Amato – un referendum innovativo e non abrogativo».

Eminenti giuristi sottolineano che meccanismi di risarcimento spicci suonerebbero poi come forme di intimidazione per i giudici che fanno il loro lavoro e, talvolta, sbagliano. Tutto può essere, ma i dati sono sconfortanti. La punizione pecuniaria del magistrato negligente e impreparato, anche di quello che ha combinato un disastro, è per quanto se ne sa, rarissima. Affidata a procedure lente e farraginose. Con quei due procedimenti civili che richiedono tempi lunghissimi – e il secondo segmento è di fatto un mistero – e la pazienza di Giobbe. Gli importi poi sono contenuti: una media, fra il 2005 e il 2014, di 54 mila euro.

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