La nuova maggioranza: a sinistra dilemmi e rinunce

Probabilmente tale irrequietezza a sinistra è da ricondursi a qualche improvvisazione nella conversione filogrillina, conversione che non ha avuto il tempo di essere elaborata e tantomeno digerita. C’è poi la circostanza che i dirigenti del Pd, a quel che si è visto, hanno occupato il poco tempo a disposizione esclusivamente per contrattare i ministeri (non si è depositato nella memoria nessun braccio di ferro su questioni programmatiche, per discutere le quali è stata impegnata l’intendenza, dopodiché sono state trovate veloci quanto generiche intese). E anche per ciò che riguarda la spartizione dei posti c’è voluto un monito di Beppe Grillo per ricondurre tutti — compresi i pentastellati — alla ragione. Circolano infine i primi sondaggi che attribuiscono, per questa operazione d’agosto, un premio assai consistente al M5S e uno più contenuto al Pd. Ce n’è abbastanza per giustificare un qualche nervosismo.

Ma c’è poi la sensazione che la prospettiva di una sinistra italiana in grado di andare un giorno al governo sull’onda di un indiscutibile (e legittimante) successo elettorale svanisca sempre più all’orizzonte. A differenza di quel che è accaduto e accade in tutto il mondo — quantomeno nei Paesi in cui si tengono vere elezioni — da noi, in settantacinque anni, non è mai successo che la sinistra sia andata al potere in seguito a una vittoria elettorale. Con l’unica eccezione del 21 aprile 1996 quando vinse l’Ulivo con Romano Prodi. Eccezione Prodi a parte, la sinistra è sempre andata al governo grazie a manovre parlamentari giustificate dalla necessità di far fronte a emergenze. La prima di queste emergenze fu autentica: si trattava di affrontare l’occupazione tedesca, sicché, dopo la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, i partiti della sinistra entrarono il 24 aprile del 1944 nel secondo gabinetto guidato da Pietro Badoglio (per rimanere anche in quelli di Ivanoe Bonomi, Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi). In seguito poi all’esplosione della guerra fredda, comunisti e socialisti furono estromessi (nel ’47) dall’esecutivo e per decenni sognarono di rientrare in virtù della ricostituzione di un’alleanza antifascista. Ancora nel 1973 Enrico Berlinguer — quando, dopo il golpe cileno di Pinochet, teorizzò il compromesso storico — diede prova di non aver fiducia in una sinistra che come in Inghilterra, Germania, Francia andasse al potere battendo nelle urne il fronte avverso ma di confidare esclusivamente nel fatto che democristiani e socialisti accogliessero i comunisti per far fronte a un’«emergenza democratica». A poco a poco i gruppi dirigenti della sinistra cambiarono. Ai vertici vennero selezionati esponenti senza eguali nel talento per le manovre parlamentari ma poco adatti a guidare i loro partiti a un successo elettorale.

La guerra fredda a un certo punto finì (1989). E in Italia si decise di introdurre un sistema elettorale maggioritario per dare a sinistra e destra l’opportunità di alternarsi al potere attraverso il voto. La prima volta vinse Silvio Berlusconi, la seconda come si è detto Prodi. Questa vittoria prodiana però fu resa meno nitida da due fattori: primo, il celeberrimo ribaltone che provocò, oltre alla caduta del primo governo Berlusconi, la separazione tra Lega e Forza Italia le quali poi andarono divise alle elezioni del ’96; secondo, un nuovo ribaltone che a metà legislatura provocò la caduta di Prodi e la sua sostituzione con un governo — sempre di sinistra — che poté vivere grazie all’apporto di transfughi provenienti dalla destra. In ogni caso Prodi nel ’96 aveva vinto. Dopo quella data, però, la destra fu capace di prevalere nuovamente alle elezioni, la sinistra no. Mai più. Quantomeno sul piano nazionale, dal momento che, invece, in Comuni e Regioni continuò (e continua) a battersi con le regole del maggioritario e, spesso, riesce anche a vincere. Di conseguenza le sinistre, sul piano nazionale, abbandonarono progressivamente ogni fiducia nei sistemi maggioritari e preferirono orientarsi verso quelli proporzionali nei quali non prevale nessuno e, scrutinato il voto, si vive di combinazioni parlamentari, le più stravaganti. Tornarono in primo piano i formidabili manovratori del dietro le quinte, accompagnati da un’allegra elaborazione «teorica» che esaltava le virtù dell’incoerenza, della capriola acrobatica e del mancato rispetto della parola data. Oltreché l’ostentata indifferenza a riforme, programmi, impegni su temi specifici. Ciò che ha reso sempre più diversi gli amministratori locali che, invece, con quegli impegni dovevano e devono misurarsi.

Anche Prodi, non immemore dell’esperienza di vent’anni fa (e di qualche ulteriore delusione), è diventato un fan del proporzionale e durante la crisi d’agosto ha dato il suo incoraggiamento alla formazione di un esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Anzi ha fatto di più: ha proposto, assieme a Emma Bonino, la «soluzione Ursula» cioè un governo composto dalle forze italiane che in Europa hanno votato per Ursula von der Leyen, il che comporterebbe l’immissione nella maggioranza di Silvio Berlusconi e Forza Italia. Lì per lì il suo può essere apparso come un consiglio fantasioso. In fondo, come si avrà modo di costatare già nel corso di questa settimana, per dar vita al Conte bis sono sufficienti i voti della sinistra sommati a quelli dei Cinque Stelle. Ma, fidandoci dell’intelligenza di Prodi e della sua lungimiranza, siamo sicuri che della sua «soluzione Ursula» sentiremo parlare ancora. In un futuro non troppo lontano.

CORRIERE.IT

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