Se Cannes vacilla sotto il peso del successo

alberto mattioli
inviato a cannes

Siamo solo al terzo giorno, e già il Festival vacilla sotto il peso del suo stesso successo. Perché Cannes non è un festival di cinema ma, con buona pace di Venezia, Toronto, Berlino e così via, «il» festival di cinema. Sta ai film come Salisburgo alla musica. La conseguenza è che tutti vogliono andarci e, quel ch’è peggio, ci vanno. Ma le strutture del festival, il suo programma, la stessa città che lo ospita, tutti pensati per altre epoche e altre affluenze, vengono sommersi.

Diamo i numeri. Nessuno sa di preciso quanti professionisti siano effettivamente accreditati: le fonti variano da 35 a 45 mila. I giornalisti sono 4.399, 1.868 francesi e 2.531 stranieri. Rappresentati 2.100 media di 89 Paesi, comprese 300 televisioni. I giornalisti si sono moltiplicati per cinque in 40 anni. Basti pensare che una volta i cinesi non c’erano mentre adesso, dalla frequenza con la quale provano a passarti davanti in coda, pare che ci siano solo loro.

 

Il Marché du film, la più grande fiera del mondo in materia, che si svolge nei 7 mila metri quadrati del tenebroso piano interrato del Palais des festivals, attira più di 10 mila compratori, per un mercato dal valore stimato un miliardo di dollari. Aggiungete al business i 3.160 impieghi a tempo determinato generati dal festival (700 persone lavorano lì e 300 al Marché) e le 8 mila camere d’albergo prenotate. Nei 12 giorni più lunghi del suo anno, una cittadina di 74 mila abitanti come Cannes accoglie più di 200 mila visitatori e «produce» 1.200 tonnellate di rifiuti (qui, però, li raccolgono).

 

Sono cifre impressionanti. A fronte delle quali il festival è rimasto uguale a quando impressionanti non erano. I film della selezione ufficiale sono meno di cento (scelti fra 1.930 candidati), le strutture dove vederli, più o meno, sempre le stesse. Il Palais, inaugurato nel 1983, subito ribattezzato «il bunker» (sbagliato: ci sono dei bunker più aggraziati), ultima rinfrescata nel 2012, ha il Grand Théâtre Lumière da 2.400 posti, la Salle Debussy da mille, più un po’ di sale minori. L’insieme è chiaramente insufficiente. Lo storico presidente del Festival, Pierre Jacob, propose nel ‘14 di costruire una struttura nuova, in fondo alla Croisette, ma non se n’è più parlato. Pare invece che siano già pronti dei progetti per ampliare il Palais esistente.

 

Il risultato di questo squilibrio fra l’offerta di film e la domanda di vederli è la congestione. Le code sono sempre più lunghe, roba da Russia comunista quando finalmente arrivava la carta igienica. Testimonianza personale: ieri mattina, alla proiezione delle 8.30 di Wonderstruck di Todd Haynes, ho rischiato di restare fuori benché mi fossi messo in fila con tre quarti d’ora buoni d’anticipo (ne valeva la pena, per inciso. E in ogni caso il mio pass è rosa, quindi a livello medio-alto d’importanza in un sistema di accessi a seconda del colore, gerarchicamente regolato come le «entrées» nella camera da letto del Re Sole).

 

Certo, pesano anche i controlli di sicurezza, indispensabili ma indisponenti. Verifica del badge, metal detector e ulteriore perquisizione ogni volta che si entra nel Palais, quindi almeno cinque o sei volte al giorno. Ma l’affollamento non riguarda solo i «professionels».

 

Quest’anno, all’inizio del festival, Cannes è già strapiena come di solito alla fine. La Croisette è transennata, la circolazione bloccata e le strade del centro, quanto a densità umana, ricordano Pechino. Nel week-end sarà infallibilmente bolgia. Non stupisce il successo di Ubercopter, la versione con le pale di Uber. Bastano due clic sull’App e 160 euro e si va in elicottero dall’aeroporto di Nizza all’eliporto di Cannes e viceversa, sorvolando un bel panorama e dei bellissimi ingorghi. In un Paese dove la gauche ha fatto l’ultima campagna elettorale contro l’«uberizzazione» della società, girano le pale, e non poco, anche ai tassisti.

LA STAMPA

 

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