Kosovo, nei villaggi degli scontri: «Noi in incognito tra i serbi»

I numeri di telefono usano il prefisso serbo, ben diverso dalle tre cifre utilizzate in Kosovo dal 2018. Nei negozi ci sono soltanto giornali e riviste stampati in Serbia, e la gente intorno preferisce avere un passaporto fornito dalla Serbia anziché dal Kosovo. A pochi metri dal ponte, un murale con scritte in cirillico fonde la bandiera serba e quella russa e avvisa il viandante che «Kosovo è Serbia, Crimea è Russia».

Il rischio di fare la spesa

I documenti di identità e gli atti amministrativi, anche quelli della famiglia di Mehmeti e degli altri kosovari di etnia albanese, sono rilasciati in serbo. Racconta Fehmi che le poche volte in cui escono, anche solo per fare la spesa, lui e sua moglie stanno zitti, per non farsi riconoscere. Hanno deciso di fare così dopo che l’anno scorso un gruppo di ubriachi li ha aggrediti durante la sagra di Zvecan. «È la nostra vita da kosovari in incognito».

Ieri non è successo niente. I manifestanti radunati davanti al municipio di Zvecan per impedire l’ingresso del nuovo sindaco di etnia albanese hanno srotolato sulla strada una bandiera serba lunga 250 metri, non proprio il segno di una insurrezione spontanea. I capi della rivolta hanno avuto un lungo colloquio oltre la barriera di filo spinato con un ufficiale della missione Nato.

Le richieste

Chiedono il rilascio dei due manifestanti arrestati dopo gli scontri che hanno causato il ferimento di 34 soldati e il ritiro della polizia militare kosovara che presidia l’edificio. Dopo gli Usa, che hanno sospeso l’esercitazione Nato, anche Macron ha fatto pressioni sul Kosovo. «La responsabilità delle tensioni è del suo governo», ha detto il presidente francese. A fine giornata, il primo ministro kosovaro Albin Kurti si è detto disponibile a indire un nuovo voto. «Ma solo se finiranno gli scontri e la protesta tornerà a essere pacifica». Finirà con il solito compromesso. I quattro Comuni che hanno eletto sindaci di etnia albanese avranno una amministrazione provvisoria fino a data da destinarsi, all’interno di un’area dove tutto è provvisorio. Ci pensiamo dopo, sembra essere questo il motto della comunità internazionale sul Kosovo del nord. Nel 2019, Fehmi aveva accettato di candidarsi alle municipali nella lista albanese. Avrebbe avuto per intero il voto del suo villaggio.

Una mattina, trovò il suo gatto inchiodato alla porta di casa. E decise di rinunciare.

CORRIERE.IT

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