Montagna senza neve e clima impazzito: così lo sci rischia di sparire entro 50 anni

Filippo Fiorini

C’è una riga rossa che divide l’Italia e questa riga si chiama fiume Po. Sopra, si scia, sotto, no. O meglio, in tutte le località dell’arco alpino al di sopra dei 1.500 metri gli impianti sono aperti, funzionanti e gli operatori di settore dicono: «La stagione è salva». Sulle Prealpi e a Sud del grande fiume, le conseguenze del cambiamento climatico che lo stesso corso d’acqua aveva manifestato in estate, facendo registrare una siccità record, ora si vedono in quota. Niente neve nella media montagna del Nord, né in Appennino, dov’è troppo caldo per spararla (si scioglierebbe), dove gli operatori del settore dicono che «la stagione è a rischio» e i politici si sono schierati per chiedere ristori, in parte già promessi dal governo. Oltre l’emergenza, però, si sprecano i «che fare?» per il piano a lungo termine. Già, che fare? Nuove tecnologie per produrre neve anche con caldo e venti foehn o di libeccio? Polemiche. Sentieri da trekking, piste da bici assettate per la discesa, seggiovie coi ganci per riportarle a monte e spa in quota al posto di racchette, scarponi e lame sciolinate? Polemiche anche in questo caso ma sopprattutto rammarico, perché un Paese dalla cultura sciistica come il nostro non può che ribellarsi a una tradizione che rischia l’estinzione.

Un report pubblicato dalla Confartigianato a fine 2022 cita dati Eurostat per dare all’Italia il primato europeo nell’economia della montagna: 805,6 miliardi nel 2019 ci danno la pole su 27 Paesi. Certo, questi numeri comprendono non solo le attività turistiche ma anche quelle micro e piccole imprese del territorio che indirettamente ad esse contribuiscono. In montagna, nel 2021, è andato il 51,1% dei villeggianti italiani totali e il 50,7% degli stranieri arrivati in una nazione che è pianeggiante solo per il 23,3% dei suoi oltre 300 mila km quadrati di superficie. Per ripeterci anche nella stagione 2022/23, possiamo già contare per esempio su mete classiche come Sestriere e tutta la Via Lattea (Piemonte), Courmayeur, Cervinia, Monte Rosa e Gressoney (Valle d’Aosta), Santa Caterina Valfurva e Bormio (Lombardia), Madonna di Campiglio, Val di Fassa, Val Gardena e Alta Badia (Trentino), Cortina e le restanti Dolomiti venete, nonché le alture del Friuli. Ovunque, qui, è nevicato, fa freddo e i cannoni garantiscono gli impianti aperti.

Piste chiuse invece nelle stazioni minori del Piemonte, come a Piamprato, in Val Soana, dove la neve di inizio dicembre aveva promesso bene, poi il foehn ha sciolto tutto. Oppure, a Ceresole Reale e Balme, che non hanno mai aperto. A Limone, nella Riserva Bianca, aperte una dozzina delle 40 piste disponibili, mentre a Pian Muné, nel Saluzzese, non c’è abbastanza fondo per sciare. Situazione analoga negli impianti bassi della Lombardia. Scenario ancor più grave più a Sud: Cimone e Corno alle Scale (Emilia-Romagna), Abetone (Toscana), Campo Imperatore, Ovindoli, Pescasseroli e Roccaraso (Abruzzo) sono stati battuti dal libeccio, le temperature sono sopra la media e il panorama è desolante. I governatori di queste tre regioni e i loro assessori al turismo hanno rivolto un appello al referente dell’esecutivo nazionale, vale a dire la ministra del Turismo Daniela Santanchè. Rappresentative della presa di posizione delle zone colpite, le dichiarazioni dell’assessore emiliano Andrea Corsini, che oltre a chiedere «un decreto per lo stato di crisi» ha detto: «Al Cimone e al Corno non puoi prescindere dall’offerta sci. Quindi, ci vuole un’alternativa in caso di condizioni anomale», riferendosi alla necessità di rinnovare i sistemi di innevamento.

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