La mia città ferita e il santuario di San Patrizio: così ho riscoperto l’orgoglio bergamasco

Mattia Feltri

La mia città ferita e il santuario di San Patrizio: così ho riscoperto l’orgoglio bergamasco

È la foto del santuario di San Patrizio, Colzate, Val Seriana. Me l’ha mandata un amico, Mirco Gualdi. La nostra è un’amicizia strana: non ci siamo mai visti. Mi ha scritto per la prima volta un anno e tre giorni fa, il 16 marzo 2020, per raccontarmi di suo padre, ucciso a 77 anni dal coronavirus. Dicevamo coronavirus, un anno fa. Col tempo ho scoperto che Mirco vive dirimpetto ai miei zii, il fratello di mia madre e sua moglie, nella casa che fu di mio nonno Raffaele. Vede il giardino della casa dove sono stato a balia da Santina e da suo marito Amabile, ormai morti da tanti anni. Con la balia – la chiamavo zia Santina – alla mattina partivo a piedi per salire a San Patrizio. Alzando gli occhi lo vedevamo sempre, tranne quando a una curva scompariva all’improvviso dietro agli alberi, e poi ricompariva di bianco, coi suoi archi, le sue colonne, la sua severa e inesorabile immobilità, la sua infinita dolcezza, il suo sprofondare intatto nei secoli come garanzia sul passato e sul futuro. Se c’è un posto che posso chiamare patria, è il santuario di San Patrizio. Io so che per secoli le mani e gli occhi dei miei avi si sono posati lì sopra, come i miei occhi e le mie mani, e lo sentivo fin dentro le ossa già da bambino. Mirco l’ha capito e talvolta alla mattina sale a San Patrizio, a piedi o in bicicletta, e mi manda le foto, e le guardo come fossero le foto dei miei figli, cioè l’epicentro di me stesso. Salivo anche coi miei zii o con mio nonno, quando andavamo a funghi, o a mangiare i casoncelli nella trattoria del cortile sottostante al santuario, e sono trent’anni che non ci vado più.

Un anno fa mia zia restò a letto con trentanove, quaranta di febbre per due settimane. Non ci vado in ospedale, mi disse, se posso salvarmi, posso salvarmi solo a casa. Si erano ammalati tutti: i loro tre figli – miei cugini – coi rispettivi coniugi, e i figli dei loro figli, e mio zio, che quest’anno fa 78 anni, fu l’unico a non ammalarsi e saltellava tutto il giorno di negozio in negozio e di casa in casa a fare la spesa per i familiari lungodegenti. Mia zia non me lo passava, sai che non parla volentieri al telefono, non sa che cosa dire. Mio zio, nel turbine del suo affaccendarsi, non ha mai saputo dire niente di troppo, se non con l’abissale azzurro dei suoi occhi sempre schiacciati dentro un sorriso.

Non c’è nulla di più bergamasco di mio zio. Nei giorni successivi ebbi notizie rare e via Whatsapp, perché mia zia aveva la sua partita da giocare, e poi la vinse e mi disse: quando tutto sarà finito usciremo per le strade del paese e vedremo chi c’è ancora e chi non c’è più.

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