Lo spirito dell’unità nazionale

In questo sub-governo politico, non potendo scommettere sulla competenza, il premier ha provato a investire sull’esperienza. Onestamente, si poteva e si doveva osare di più. Ma indignarsi adesso serve a poco. Per due ragioni fondamentali. La prima: come ripete spesso Mattarella, che non dovremmo mai smettere di ringraziare, si fa il pane con la farina che offrono gli italiani, e oggi la farina dei partiti è questa. La seconda: nel momento in cui tutte le forze politiche meno una accettano di scendere in campo al fianco di Draghi, Draghi stesso deve costruire una squadra in grado non solo di incassare la fiducia delle Camere, ma anche di giocare bene le partite decisive che aspettano il Paese. Ed è quello che ha fatto. Dando vita non al “governo dei migliori” che ambiziosamente si poteva sperare. Ma al “governo migliore” che realisticamente si è potuto assemblare.

Si può capire la rabbia della base pentastellata, nostalgica della Rivoluzione del Vaffa annunciata quindici anni fa da Grillo e oggi clamorosamente tradita con l’ennesimo post lisergico e revisionista pubblicato sul Sacro Blog, nel quale il Capocomico genovese invoca una “transizione cerebrale” verso il 2099 e irride i ribelli come “i ragazzi del 1999”. Si può capire la delusione della base democratica, nostalgica dell’ormai inservibile “vocazione maggioritaria” e oggi costretta a sedersi a tavola non solo col Caimano, ma pure col Capitano. È il minimo che possa capitare, nella stagione del trasformismo e del cupio dissolvi che assegna solo a noi poveri e ostinati “moralisti” la ricerca di una forma minima di coerenza persino in politica.

La crisi del governo Conte, in un momento drammatico per l’Italia e per il mondo, resterà negli annali come un gesto suicida di suprema irresponsabilità. L’ex premier se ne va con onore: il lungo applauso che collaboratori e dipendenti gli hanno tributato nel cortile di Palazzo Chigi dimostra che un suo segno lo ha lasciato. Nonostante la vaghezza identitaria che in tre anni l’ha reso un Arlecchino servo di due padroni, nonostante la scaltrezza dorotea che gli ha permesso di galleggiare molto e rinviare troppo, l’Avvocato del Popolo ha steso comunque un velo di decoro su un governo gialloverde che non ne aveva affatto e su un governo giallorosso che non ne aveva abbastanza. Ma se ora che Conte lascia e Draghi gli subentra la domanda è “ne valeva la pena?”, la risposta è fin troppo facile: sì, ne valeva la pena. Lo scrivo col senno di poi, ovviamente, perché a un certo punto la folle crisi al buio ha portato davvero il Paese in un pericolosissimo vicolo cieco. E lo sostengo malgrado l’eterogeneità di questa Grande Coalizione, che d’ora in poi faticherà non poco a fare sintesi e a trovare “equilibri più avanzati”. Ma ne valeva la pena perché, pur senza decretarlo Santo subito, proprio Draghi fa la differenza. Parafrasando McLuhan, stavolta «l’uomo è il messaggio».

Da oggi entriamo in una terra incognita, ma ricca di opportunità. Vale per il Paese, ma anche per il Palazzo scosso da un Big Bang. Riparati dietro alla risorsa più preziosa che la riserva della Repubblica poteva offrire, di qui alla fine della legislatura i partiti hanno la possibilità di ricostruire se stessi e di rilegittimarsi agli occhi di una società civile sfinita e sfiduciata e di un’Europa impaziente e diffidente. Ne approfittino, se ne sono capaci. È lo stesso premier a sostenerlo, quando ricorda la lezione di Cavour, la «difficoltà strutturale del Paese a convivere con una competizione politica fra schieramenti contrapposti nel quadro dell’alternanza di governo» e la necessità che in situazioni di «diffusa instabilità vi sia una conduzione che mantenga saldamente il potere di iniziativa politica». Se i partiti non lo faranno, non piangano quando nel 2023 un altro tecnico sarà chiamato ancora una volta a commissariare la politica. Non a caso l’Economist appena uscito titola il suo commento sull’Italia “Obbligati ai tecnocrati di nuovo”. La nostra democrazia è già abbastanza esausta: non può continuare a logorarsi in un conflitto permanente tra il San Giorgio populista e i Draghi.

LA STAMPA

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