Lo spirito dell’unità nazionale

MASSIMO GIANNINI

«E ora tutti uniti per mettere in sicurezza il Paese», dice Mario Draghi chiudendo il primo Consiglio dei ministri riunito dopo il giuramento. Fa il paio con il «crepi il lupo» di venerdì sera, pronunciato davanti ai fotografi al Quirinale. Più che appelli e auspici, sembrano esorcismi e scongiuri. Pure in tempi eccezionali, un esecutivo eccezionale come il suo non l’abbiamo mai visto in settant’anni di vita repubblicana. Governissimo, larghe intese, compromesso storico, salute pubblica: ognuno scelga la formula che preferisce. Se non suonasse troppo retorico, per questa parvenza di unità nazionale verrebbe da invocare il “veni creator spiritus” di Benedetto Croce ai tempi della Costituente. Ma è certo che questa Grosse Koalition all’italiana non ha precedenti conosciuti. Mai un governo aveva potuto contare su una maggioranza estesa di fatto all’intero arco costituzionale (con la sola eccezione di Giorgia Meloni, che segue le orme di Giorgio Almirante).

Draghi governerà sulle macerie di una politica che, dopo l’ubriacatura grillo-leghista di tre anni fa e la rottura renziana di due settimane fa, gli si è consegnata mani e piedi, per insipienza e per inconcludenza. Chi ora nega la crisi di sistema è cieco o è in malafede. Dopo la Grande Recessione del 2008 abbiamo avuto tre elezioni e ben sei presidenti del Consiglio. Di questi, quattro consecutivi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) battezzati non dalle urne ma da accordi parlamentari tra maggioranze ogni volta diverse. Dopo il trionfo delle forze nazional-populiste alle elezioni del 2018 abbiamo avuto altri tre governi (Conte Uno, Conte Due e ora Draghi), di nuovo con maggioranze sempre differenti. Come scrive il «Guardian», l’alternanza «tra demagoghi populisti e tecnocrati rischia di diventare una tendenza costante, ed è oggettivamente un segno di crisi strutturale della politica».

Draghi è un ircocervo. Ha un governo tecnico, il suo, ed è obiettivamente qualificato: otto eccellenze di alto profilo e di assoluta fiducia, che il premier ha selezionato con cura e che condividono con lui i dossier più importanti per l’Italia e per l’Europa, cioè l’implementazione delle grandi riforme, la gestione dell’economia e l’attuazione del Recovery Plan. Poi ha un sub-governo politico, il “loro”, ed è francamente modesto: quindici rappresentanti dei sei partiti coalizzati, che il premier ha concordato con le segreterie in base ai sacri principi del manuale Cencelli e che si occuperanno del poco che resta. Il risultato è quello che abbiamo visto ieri sul Colle: la foto di gruppo, interessante ma a tratti distopica, di un esecutivo bipolare, nel quale convivono facce nuove in prima linea e vecchie maschere nelle retrovie. Fa effetto il ritorno in scena dei verdi Garavaglia e Stefani, residuati padani di cui non si sentiva una particolare mancanza, o degli azzurri Brunetta e Gelmini, sopravvissuti forzisti della nota e remota diaspora del Popolo delle Libertà. Come pure fa effetto l’ardimentosa resistenza dei pentastellati Dadone e D’Incà, o peggio ancora la scandalosa renitenza del Pd a dare spazio alle donne, vergognosamente sacrificate ai “maschi alfa” del partito, intoccabili da sempre.

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