Cosa sappiamo della nuova variante del coronavirus in Gran Bretagna

La variante «può essere già in altri Paesi»

La nuova variante del virus, ha detto Vallance, è stata scoperta a metà settembre a Londra e nel Kent. «A dicembre», ha aggiunto, «è diventata la “variante dominante” a Londra». Nella settimana terminata il 18 novembre, la variante è stata individuata in un caso su quattro a Londra e nel Sud-Est dell’Inghilterra e nell’Inghilterra orientale. Nella settimana terminata il 9 dicembre, la variante è stata riscontrata nel 62% dei casi a Londra, nel 59% nell’Inghilterra orientale e nel 43% nel Sud-Est. Secondo Vallance, «pensiamo che questa nuova variante possa essere già in altri Paesi». Potrebbe essere partita qui, ma «non lo sappiamo con certezza».

I vaccini «dovrebbero funzionare»

Vallance ha spiegato che i vaccini contro il coronavirus al momento approvati in Gran Bretagna — quello di Moderna e quello di Pfizer, che si basano sulla tecnologia mRNA — sembrano fornire una risposta adeguata anche a questa nuova variante, ma che «nuove misure, più dure, sono indispensabili per tenere questa mutazione sotto controllo».

Le varianti già in circolazione

Come scritto qui da Laura Cuppini, tutti i virus sviluppano mutazioni, cambiamenti nelle singole lettere del loro codice genetico che possono raggrupparsi in nuove varianti e ceppi. Queste mutazioni non determinano per forza cambiamenti rilevabili nella trasmissibilità o patogenicità. L’obiettivo di un virus è quello di adattarsi all’ospite per replicarsi: un cambiamento relativo alla trasmissibilità è vantaggioso, mentre aumentare la letalità non aiuta il virus stesso nella diffusione visto che quando muore l’ospite sparisce anche il patogeno. Il Sars-CoV-2 è già mutato: a giugno gli scienziati dello Scripps Research Institute in Florida avevano individuato una variante, significativa per la trasmissibilità di Sars-CoV-2, in un gene che codifica per la proteina spike (gene D614G). I ricercatori hanno dimostrato che questa mutazione ha l’effetto di aumentare notevolmente il numero di picchi (spike) «funzionali» (che possono penetrare nelle cellule) sulla superficie del virus: la conseguenza è che ogni particella virale è quasi 10 volte più infettiva, almeno in laboratorio, rispetto ad altri ceppi. Le analisi genomiche hanno mostrato che questa variante (chiamata «D») è diventata dominante dopo l’avvio in Cina dell’epidemia e potrebbe spiegare perché il coronavirus si è diffuso così ampiamente in Europa, Stati Uniti e America Latina. All’inizio di novembre, poi, un team internazionale di scienziati ha ricondotto l’origine della seconda ondata europea in Spagna, precisamente in un focolaio nato tra lavoratori agricoli e diffuso rapidamente da persone di ritorno dalle vacanze. L’analisi ha identificato una variante chiamata 20A.EU1, che si è diffusa velocemente in gran parte dell’Europa e nel Regno Unito. Pochi giorni dopo l’attenzione si è spostata in Danimarca, dove il Governo ha fatto abbattere milioni di visoni in più di mille allevamenti. Motivo: la preoccupazione per una mutazione che ha infettato questi animali (e alcuni allevatori) e che potrebbe interferire con l’efficacia dei vaccini. La variante, rilevata in persone che avevano contratto l’infezione da visoni, sembrava estremamente preoccupante perché in grado di indebolire la formazione di anticorpi.

CORRIERE.IT

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