Le attività (da difendere) che sono parte di noi

Parliamo ovviamente di categorie diverse. Ma hanno una cosa in comune: il loro lavoro ha molto a che fare con la nostra vita. Con la cultura, con la socialità. I loro spazi sono luoghi di incontro. Scaldano le nostre anime. A maggior ragione in un Paese come l’Italia, dove è una fortuna essere nati sia per la ricchezza culturale, sia per il calore dei rapporti interpersonali. Se perdiamo questi lavori, questi luoghi, non perdiamo soltanto un’importante quota di prodotto interno lordo. Perdiamo una parte di noi stessi. Per questo noi per primi dobbiamo fare tutto il possibile per salvarli. E devono farlo le Regioni, il governo, l’Europa.

Sul Corriere Pierluigi Battista ha proposto già all’inizio della crisi un Fondo o un Prestito nazionale per la cultura: un’idea che ha dato via a una discussione ampia e proficua. Si tratta ora di passare ai fatti. E di estenderli a tutte le attività che abbiano un rilievo pubblico e sociale e siano particolarmente esposte ai danni provocati dalla pandemia. Gli strumenti finanziari non mancano, e accanto ai prestiti a tassi zero dovranno prevedere anche aiuti a fondo perduto.

L’obiezione potrebbe essere che la platea da aiutare è in teoria troppo ampia. Le associazioni di categoria, che fanno il loro mestiere, già lanciano l’allarme e prevedono la chiusura di un quinto dei bar e dei ristoranti; che in effetti dovranno reggere al crollo del turismo. Ma le dinamiche economiche internazionali ci insegnano che il settore del food è meno colpito di altri dalla rivoluzione digitale. Semmai esiste in Italia un rischio specifico. La ristorazione, dal locale stellato al forno di quartiere, è spesso ancora in mano alle famiglie. A Londra e a New York è in mano alle catene, direttamente o in franchising. Vogliamo anche noi mangiare e bere le stesse cose dappertutto? Ci rassegneremo all’omologazione del gusto, alla dittatura del precotto e del surgelato? Anche qui c’è una specificità italiana da tutelare, anche questo è un fatto di cultura.

Non possiamo sapere oggi se tutto tornerà come prima, né se nulla sarà come prima. Il decreto della presidenza del Consiglio, a una prima lettura, è stato interpretato come un’estensione del lock-down. Ma potrebbe anche rivelarsi un modo prudente di ricominciare. Riaprono quasi tutte le aziende più importanti (molte non si sono mai fermate). E dire agli italiani che possono andare a trovare la mamma, e pure «i congiunti», significa di fatto riconsegnarli alla vita sociale, sia pure con le dovute precauzioni. Ma se ci ritroveremo in un paesaggio di serrande abbassate – stavolta per sempre –, di cinema sbarrati, di teatri trasformati in sale bingo, di librerie riconvertite in «compro oro», allora sarà una vita materialmente e anche spiritualmente più povera.

CORRIERE.IT

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