Gli errori (a sinistra) sul conflitto in Libia

Ma — ripetiamo — sarebbe ingeneroso limitare le nostre considerazioni al dileggio di questa brutta figura. Non fosse altro per il fatto che i Cinque Stelle hanno come partner di coalizione l’intera sinistra italiana che, con l’eccezione di Emma Bonino e pochi altri (fuori dalla compagine governativa), ha fin qui evitato di approfondire il caso. E sì che la sinistra italiana ha con il dossier libico una robusta consuetudine dal momento che con esso si è abbondantemente misurata negli anni di governo della passata legislatura. Di più: è stato il Pd ad impegnare l’Italia in uno strettissimo rapporto con Sarraj, un leader che godeva del riconoscimento delle Nazioni Unite; noi italiani siamo stati i primi (e per lungo tempo gli unici) ad aver riaperto un’ambasciata a Tripoli; abbiamo aiutato in ogni modo Sarraj a resistere all’aggressione di Haftar, sostenendolo nella ricerca di accordi con i clan tribali che nei fatti controllavano gli itinerari dei migranti. Lo abbiamo fatto per rendere più governabili le rotte dei fuggiaschi provenienti da Paesi a sud della Libia. E per agevolare le relazioni petrolifere con la parte del Paese controllata dal capo del governo di Tripoli. Intenti lodevoli nei quali si sono particolarmente impegnate personalità del calibro di Paolo Gentiloni — dapprima come Ministro degli Esteri poi come Presidente del Consiglio — e Marco Minniti allorché nel 2017 approdò al Ministero dell’Interno.

Quel nostro encomiabile interessamento alla figura di Sarraj — il quale dovette faticare enormemente a metter piede nella capitale, tant’è che per un periodo non breve fu costretto a rifugiarsi in imbarcazioni al largo della costa tripolina — rimase, come dicevamo, a lungo isolato. Nel frattempo Haftar si faceva ogni giorno più baldanzoso e trovava il sostegno dell’Egitto, degli Emirati arabi, della Francia e della Russia tramite i cosiddetti «mercenari di Wagner». Anche se l’inviato russo in Libia Lev Dengov, a ridimensionare questo appoggio, ha fatto notare che, nei recenti combattimenti per Sirte, al fianco delle milizie di Haftar non c’erano né suoi connazionali, né combattenti al soldo di Yevgeny Prigozhin, l’uomo che per conto di Putin controlla il «gruppo Wagner».

Poi mentre l’Italia continuava a sostenere Sarraj — sia pure con minore entusiasmo nell’epoca del primo governo Conte — sono accaduti due fatti che hanno modificato la situazione iniziale: il Presidente degli Stati Uniti si è pubblicamente avvicinato ad Haftar; quello della Turchia ha addirittura inviato un sostegno militare a Sarraj. Al che Conte e Di Maio — colti alla sprovvista e con l’evidente scopo di non essere del tutto estromessi dai giochi — si sono presentati sulla scena internazionale improvvisandosi come pacieri. E’ credibile l’Italia in questi panni? Può darsi. Ma non prima che abbia chiarito i termini della propria passata militanza sarrajista. Tanto più che Haftar, Egitto ed Emirati accusano esplicitamente il nostro beniamino di essere un fomentatore di estremisti islamici. Il 19 aprile scorso la Casa Bianca ha diffuso un comunicato in cui si dava notizia di una telefonata tra Trump e Haftar nella quale il Presidente degli Stati Uniti ha riconosciuto al capo di stato maggiore del governo cirenaico di Tobruk un «importante ruolo nel combattere il terrorismo». Abbiamo niente da dire in merito a questi fatti? Ci candidiamo a separare due contendenti dai quali ci consideriamo equidistanti? O riteniamo che i rilievi mossi a Sarraj siano in una qualche misura motivati e di conseguenza ci stiamo spostando dalla parte di Haftar? Siamo disposti infine ad inviare in Libia nostri soldati per una forza di interposizione come quella che dal 2006 ha garantito una sorta di pace in Libano? Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini sembra favorevole a quest’ultima opzione. Ma forse sarebbe il caso che la maggioranza di governo facesse chiarezza su tutti questi punti. Uno per uno.

C’è infine una questione di sensibilità politica e di persone. Il Pd ha dato l’impressione — nell’ ultimo governo, presieduto da Gentiloni, quasi interamente suo e in quello attuale, il Conte II — di considerare il dicastero degli Esteri sacrificabile, per così dire, alle alleanze. Ai tempi di Gentiloni lo affidò ad Angelino Alfano, un politico adatto probabilmente a molti altri ruoli ma assai meno a quello di comandante in capo della politica estera italiana. Poi, nello scorso agosto, quando si è passati dal Conte I al Conte II, il Pd, pur di non riconoscere a Di Maio il diritto ad occupare il posto tutto sommato ornamentale di vicepresidente del Consiglio, ha accettato senza batter ciglio che gli fosse affidata la poltrona di guida della Farnesina. C’era il problema, si disse allora, di sottolineare in qualche modo la discontinuità tra i due «Giuseppi». Con quella scelta però il Pd — oltre a consegnare gli Esteri in mani inesperte — ha inavvertitamente contribuito a terremotare il M5S mettendo il leader grillino in una posizione per la quale era ad ogni evidenza impreparato e inadeguato. Fosse stato alla guida di un dicastero che lo esponeva a un minor numero di gaffe e passi falsi, Di Maio sarebbe stato più credibile come capo di partito, anche dopo l’insuccesso delle elezioni europee. Le conseguenze si vedono adesso. Difficilmente, se verrà ridimensionato o buttato fuori dalla cabina di guida della compagine pentastellata, il giovane leader di Pomigliano potrà essere considerato più solido, più autorevole, un politico in grado di tenere le redini della nostra politica estera. L’inesorabile storia dei doppi incarichi (da quello di Amintore Fanfani nel 1959 a quello di Ciriaco De Mita trent’anni dopo) insegna: quando si è costretti a cedere il proprio ruolo nel partito, si perde anche quello nel governo.

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