Giorgia Meloni e Matteo Salvini, la gara triste degli analfabeti costituzionali

Altra corbelleria costituzionale, il refrain ripetuto a reti unificate da Salvini: tagliamo il numero dei parlamentari, poi andiamo senza indugi alle elezioni. Sennonché quella riforma entrerebbe in vigore in primavera (tre mesi per chiedere il referendum, eventualmente tre per espletarlo, un altro paio di mesi per ridisegnare i collegi elettorali). Le elezioni anticipate, viceversa, cadrebbero in ottobre, sicché continueremmo a eleggere 945 parlamentari, non già 600, come stabilisce la riforma. Dunque una presa in giro, ma al contempo la delegittimazione del nuovo Parlamento, che appena insediato si troverebbe con 345 rappresentanti ormai abusivi. E a quel punto, come dovrebbe reagire Mattarella? Forse sciogliendo le Camere neoelette? Uno scenario da repubblica di Weimar, dove infine il Palazzo fu espugnato dai nazisti. Repetita iuvant, ma in questo caso ripetere l’esperienza proprio non conviene.

Infine in questa crisi è risuonata una parola magica: mozione, che emozione. C’è quella degli affetti, ma c’è anche la mozione dei dispetti. La prima è andata in scena il 7 agosto, quando il Senato ha respinto la mozione anti-Tav firmata dal Movimento 5 Stelle. Singolare iniziativa, promossa dal maggior partito di governo contro il proprio governo, che aveva già acceso il verde del semaforo su quest’opera pubblica. Loro, i 5 Stelle, giustificarono l’ossimoro sostenendo che la mozione si rivolgesse alle assemblee legislative, non al gabinetto Conte. Errore, ogni mozione è una direttiva parlamentare nei riguardi dell’esecutivo, non dello stesso Parlamento. Ma in realtà quel testo intendeva blandire gli elettori, era per l’appunto una mozione degli affetti; e i sentimenti, si sa, hanno poco a che spartire con la logica.

Invece la mozione dei dispetti è stata presentata due giorni dopo dalla Lega. Mozione di sfiducia, la cui approvazione comporta l’obbligo di dimissioni del governo, secondo l’articolo 94 della Costituzione. In questo caso la logica, perciò, vuole che la sfiducia sia posta dall’opposizione, come fin qui era sempre accaduto. Stavolta, viceversa, proveniva da un partito con 6 ministri sui banchi del governo. Dunque un’autosfiducia, un dichiararsi contrari a sé medesimi. Ma c’era pur sempre un modo per evitare il cortocircuito logico: le dimissioni di Salvini e dei suoi 5 fratelli, insieme ai 3 viceministri e ai 15 sottosegretari della Lega. Macché, tutti inchiodati alla poltrona, mentre la sfiducia restava fuori dal calendario del Senato. Fin quando, parlando in Senato il 20 agosto, non è stato invece Conte a sfiduciare Salvini. No, non abbiamo assistito a una crisi politica. È stata una crisi culturale, intellettuale, cerebrale.

L’ESPRESSO

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