Sicurezza e parole di troppo

Tra i confini che non devono essere superati ce n’è però un altro altrettanto importante, anzi fondamentale. E riguarda il rispetto dell’incarico che si ricopre. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini si è rivolto ai sindaci che minacciano la non applicazione del decreto, definendoli «traditori», li ha bollati come «amici degli stranieri irregolari». Li ha avvisati che «la pacchia è finita», utilizzando lo stesso linguaggio fin qui usato contro i criminali.

Sempre più spesso il titolare del Viminale e vicepresidente del Consiglio, non tiene in conto la delicatezza del proprio ruolo. Evidentemente il consenso fin qui accumulato lo ha convinto che ciò lo porterà a vincere le Europee. Persuaso forse dal fatto che il malumore crescente all’interno dei 5 Stelle e le critiche aspre nei confronti del suo atteggiamento e delle sue proposte legislative, lo aiuti a raggiungere questo risultato. E forse non è un caso che Di Maio lo abbia sfidato proprio sul tema del divieto di sbarco per i migranti.

Salvini dovrebbe però sapere che chi guida un ministero strategico come quello dell’Interno deve seguire un registro preciso perché tratta questioni estremamente delicate, si occupa della sicurezza dei cittadini e dunque non può in alcun modo alzare i toni se non vuole correre il rischio di fomentare la rabbia e l’intolleranza. Non può additare gli «avversari» come continua a fare sui social o durante i comizi. Soprattutto dovrebbe porsi il problema di rispettare i diritti costituzionali quando presenta un provvedimento. Finora il Paese ha reagito in maniera composta e responsabile alle sue esternazioni. Ora però è indispensabile cambiare registro, rientrare nei ranghi istituzionali. E dunque aprirsi al confronto con chi ritiene che alcune scelte di questo governo siano sbagliate o dannose.

Se si agisce senza pregiudizi, si può anche tenere ferma la posizione e rifiutare le proposte di cambiamento. Ma bisogna farlo al termine di un percorso che tenga nel conto le ragioni di tutti.

CORRIERE.IT

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