I populisti senza più complessi

Quando tre anni fa gli elettori in Polonia affidarono ai nazional-populisti di Legge e giustizia la maggioranza più netta mai vista dal 1989, Adam Michnik commentò: «A volte una bella donna perde la testa e va a letto con un bastardo». Da giovane Michnik aveva affrontato le carceri del regime, pur di conservare viva per la società polacca la speranza di un futuro europeo e di una società aperta. Invece quella, una volta libera, si era buttata fra le braccia di un provinciale bigotto, aggressivo e strafottente. Oltretutto non per un’avventura passeggera, ma per lo meno per una lunga convivenza. Tutto questo con l’Italia non ha niente a che fare, non fosse che Michnik e le tradizionali élite europeiste del nostro Paese oggi sembrano accomunate da un’ironia della storia. Si sentono vittime di un intoppo lungo una strada che pensavano già segnata e senza alternative. In fondo va sempre così. I sovrani tedeschi nel 1791 si riunirono nel castello di Pillnitz in Prussia, racconta Tocqueville, e determinarono che la rivoluzione francese era «un incidente locale e passeggero». E quando i bolscevichi presero il potere nel 1917, milioni di russi bianchi si trasferirono all’estero ma evitarono per anni di disfare le valigie. Contavano che le politiche economiche del leninismo avrebbero presto fatto crollare il nuovo regime e loro sarebbero tornati a casa.

Anche le valigie di molti esponenti del mondo che ha governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo restano pronte in un angolo della loro mente. Quelli aspettano solo che l’infatuazione degli italiani per il «bastardo», il governo giallo-verde, passi non appena quest’ultimo si sarà preso qualche multa di troppo a Bruxelles o sui mercati per guida in stato di ebrezza. Tutto può essere. Può essere anche che le ammende si accumulino ma l’infatuazione degli italiani per il governo populista si trasformi in rapporto stabile, mentre le valigie degli europeisti, emotivamente in esilio dal loro Paese, restano chiuse a coprirsi di polvere.

Se esiste un’analogia oggi fra Polonia, Ungheria e Italia, i Paesi dell’Unione Europea a guida nazionalista e euroscettica, è nell’inanità delle opposizioni. Di comune queste forze europeiste e liberali hanno il rifiuto di chiedersi perché i connazionali gli abbiano voltato le spalle per affidarsi a leader ai loro occhi tanto smargiassi, poco istruiti e invisi ai grandi media esteri che quegli esponenti del vecchio establishment leggono ogni mattino. Credevano di guidare il proprio Paese verso un futuro migliore e non capiscono come sia possibile che il Paese non li voglia più. Eppure non dovrebbe essere difficile, se solo si voltassero un attimo indietro. Almeno dal Trattato di Maastricht nel 1991 il loro messaggio agli italiani è stato che dovevano cambiare e migliorarsi, diventare più simili alle stesse élite istruite. Dovevano sforzarsi di assomigliare ai tedeschi o agli altri europei di successo e buone maniere. Questo naturalmente aveva alle spalle (e conserva) una solida logica economica e istituzionale, però le élite europeiste nelle loro certezze non hanno mai perso tempo a valutare il retroterra su cui innestavano questa continua pressione psicologica sui loro connazionali. Nella società italiana, anche nei momenti di successo, il senso doloroso di rappresentare un’anomalia in Europa è sempre serpeggiato appena sotto la superficie. Anche quando non è un complesso di inferiorità — che le élite europeiste per prime avvertono — è un sentirsi non proprio come gli altri. Naturalmente la storia non si cancella con un tratto di penna, neanche se è una firma su un trattato europeo. Non in un Paese arrivato tardi all’unificazione, alla modernità industriale, alla piena democrazia e tolleranza, e tardi e male a un’idea di Stato efficiente e laico.

La speranza era che proprio l’Europa aiutasse a recuperare il distacco e in gran parte è andata così. Appartenere alla Ue ha enormemente accelerato la modernizzazione, poi però sono accadute alcune cose. La più evidente è che la promessa di prosperità o almeno di normalità offerta dall’euro non è stata mantenuta. Poco importa che ciò sia accaduto, in buona parte, perché i politici e il sistema produttivo non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di prepararsi davvero all’unione monetaria, in modo da sfruttarne meglio i vantaggi e contenerne gli svantaggi. Dal 1980 al 1998 il valore della lira espresso in marchi tedeschi è più che dimezzato e ciò stesso dimostra quanto lavoro scomodo si sarebbe dovuto fare per adeguare davvero il Paese all’euro in questi vent’anni.

Gli italiani hanno capito soprattutto la sostanza, cioè che quella promessa europea è stata disattesa. Come Nino Manfredi in «Pane e cioccolata», hanno scoperto che non bastava camuffarsi da nordici per diventare davvero tali. Negli ultimi anni hanno anche visto che alcune delle richieste di sacrifici più dolorose arrivate dal Nord Europa non erano nel loro vero interesse o nell’interesse dell’equilibrio generale europeo. Piuttosto, riflettevano una percezione tedesca dell’interesse europeo o magari solo una sete di consenso interno del governo di Berlino. Questa pressione per somigliare alla Germania ha finito così per produrre reazioni ambivalenti. Rivelava nella nazione leader un fastidioso innamoramento di se stessa e finiva per aggravare il complesso di inferiorità nei seguaci italiani, dato che le distanze aumentavano anziché ridursi. Un modello distante e irraggiungibile crea solo frustrazione. Peggio, gli italiani vedono che i membri delle élite europeiste che spingevano in quel senso, per qualche ragione, cascano sempre in piedi; non condividono mai il destino di penuria e insicurezza del loro popolo.

Matteo Salvini e Luigi Di Maio entrano in scena a questo punto. Non hanno studiato molto, non pretendono di sapere, si vantano del loro passato di lavoretti o della «panzetta» perché, dice Salvini, «non vado in palestra e se vedo un cornetto alla crema me lo magno». Hanno risposte sbagliate, ma domande giuste (disoccupazione, disuguaglianza…). Perfetti nella loro ostentata medietà, liberi da complessi e dal desiderio di piacere in Europa, i due sollevano l’elettore dal senso di inferiorità di doversi adattare a un modello superiore. I nuovi potenti hanno convinto gli italiani che sono liberi; vanno bene così, nei loro limiti, e più niente è atteso da loro. È un’illusione, purtroppo, perché l’Italia resta una società iniqua, familista e bloccata, la demografia in drammatico declino, l’emigrazione dei giovani un’emorragia e soffocanti interessi sul debito più alti della crescita. L’Italia non va bene com’è. Ma abbracciare la propria anomalia senza sentirsi giudicati, per ora, è una tremenda vendetta.

CORRIERE.IT

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