Quando Marchionne si aprì e disse: «Manuela è la mia fortuna». Il volto segreto e la tenerezza del manager

Marchionne è — non riusciremo mai parlarne al passato — un uomo pubblico, entrato nelle case di tutti con il maglione nero e discutibili camicie a quadri, conquistando la gente comune. Chi lo incontrava, nei pochi sabati di relax, al mercato della Crocetta, a Torino o al supermarket di Detroit, ad acquistare il pesce, lo salutava dicendo sottovoce «è Marchionne…». Oggi prega per la sua salute, chiede, si informa, vuol sapere come sta. (Qui il servizio di Giusi Fasano da Zurigo: le condizioni irreversibili e l’ultima battaglia)

Un’ondata di affetto perché Marchionne, considerato uno dei manager più popolari al mondo, è uno che sorride quando i ragazzini suonano il campanello della sua casa per fargli uno scherzo. Seduto alla scrivania nel suo studio, guarda fuori dalla finestra e saluta, si sente parte della comunità. Il manager duro, determinato, freddo, che si accende come un fiammifero, di cui tanti suoi collaboratori raccontano sfuriate pazzesche e taglienti, sa essere ironico, divertente, affettuoso, tenero.

Telefona, all’improvviso, di nascosto, alle persone di cui si fida, pregandole di far in modo che Manuela, la sua compagna («la mia fortuna» dice di lei), non sappia di un pettegolezzo o di un commento che potrebbero farla soffrire: «Non ditele nulla, fate in modo che non lo scopra». Quando lo fermano e lo salutano nelle occasioni pubbliche, ostentando una familiarità di lunga data, si gira e chiede «chi è?» e poi scoppia a ridere, con le lacrime agli occhi, commentando la sua performance «degna di un grande attore».

In visita, nelle fabbriche, è applaudito come una star, rassicura, garantisce il lavoro e trasmette serenità.

A chi critica le sue sciarpe dai colori spenti, sempre sulle tonalità del grigio, che esibisce regolarmente ai saloni di Detroit o di Ginevra, con la scusa di aver freddo, risponde «me l’hanno regalata i ragazzi della mia squadra, sono felici se me la vedono addosso».

Quando, sempre durante un motor show, nascosto dietro a una colonna per fumare, sperando che nessuno lo scoprisse (ma ha smesso da alcuni mesi), chiese conferma se lo stand era bello. Non è mai soddisfatto, chiede ogni volta qualche modifica, «per Fca voglio il meglio», ripete ogni volta che le cose non gli piacciono.

Forse non c’è mai stato un amministratore delegato così innamorato della sua società, in modo quasi naïf, lui che ha un’intelligenza superiore e una memoria eccezionale, si stupisce se qualcuno critica un modello, una strategia «dovrebbero tifare per noi come per una squadra di calcio». Il suo altro grande amore è l’Italia. In casa, anche dopo il trasferimento in Canada, a soli 14 anni, si parlava italiano. Le sue radici sono sempre state ancorate al nostro Paese, pur avendo avuto una formazione anglosassone. Non si vergogna di girare con la bottiglietta di plastica dell’acqua in mano, beve direttamente dalla bottiglia, apprezza il caffè ristretto, sa guardare negli occhi e leggere dentro le persone, non sopporta l’infedeltà. Quando parla, la sua mente corre più delle parole, è necessario interpretarlo ma trasmette ogni volta un’informazione, importante saperla cogliere.

Ha mantenuto sempre le promesse, sin dall’inizio, mentre battagliava come un forsennato per salvare la Fiat. Era stato a New York, nello studio degli avvocati Sullivan&Cromwell, per cercare di risolvere il contratto che legava la casa piemontese alla General Motors. Dopo, era venuto a Detroit, al Salone e a chi gli chiedeva «ma come riuscirà a far risorgere la Fiat, come potrà concorrere con questi mostri?». Nel 2005 l’industria dell’auto americana era all’apice del successo e Fiat non aveva una sola macchina nuova, lui rispose «ho bisogno del vostro aiuto, ma vinceremo, quando firmerò l’accordo manderò un messaggio».

È stato di parola, alle 5 del mattino, del 14 febbraio 2005, sul cellulare apparve un messaggio: «Abbiamo appena firmato». Aveva fatto un miracolo. Dopo, al telefono, era felice come un bambino.

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