Renzi: “Il mio Pd non può essere la sesta stella dei grillini”

Carlo Bertini
roma
 

Alle otto di mattina Matteo Renzi corre con le sue scarpe da jogging lungo le Cascine, auricolare iper attivo. Alle otto di sera, nella sua posizione di pendolare all’americana, corre in auto verso Firenze e commenta gasato al telefono con un senatore le dodici ore trascorse nella capitale, dopo aver vinto la prova di forza sui numeri con i «governisti». Che oggi in Direzione potranno magari strappare un ok all’operato di Martina con un voto unanime; dovendo però ingoiare pure un voto sul documento già firmato ieri da 120 membri della Direzione su 209,compresi Padoan e Calenda. Una pietra tombale su un qualsiasi accordo di governo con i grillini.


Una debàcle strategica vista nell’ottica dell’ex segretario. Sconcertato dal veder rilanciare l’altra sera da Vespa per bocca di Piero Fassino una tesi la cui paternità Renzi attribuisce a Walter Veltroni. Di un nuovo bipolarismo, con M5S e Pd nella parte di attori di una sorta di nuovo centrosinistra, da contrapporre al centrodestra sovranista. «Ci rendiamo conto? Il Pd dovrebbe diventare una sorta di badante dei 5stelle per un nuovo centrosinistra di populisti a cinque stelle.

Ma davvero pensa che noi possiamo essere la sesta stella di questi qui? Non esiste». Beninteso: il confronto a due si può fare, «in streaming però». E partendo dal presupposto che Di Maio non possa fare il premier – concetto fatto recapitare da Renzi all’interessato anche per “vie brevi” nei giorni scorsi. Con il messaggio implicito che in tal modo lui dovrebbe concedere qualcosa avendo poco o nulla in cambio, rischiando così di perdere la sua base di consenso.

 

Quindi la serata porta un buio sempre più fitto sulla scena della crisi: nel Pd gira voce che Mattarella possa dare un incarico a Sabino Cassese per un esecutivo di tregua fino alle elezioni, con Di Maio confinato nel ruolo di ministro degli Esteri. Renzi, che come tutti i big è terminale dei tanti spifferi che percorrono i Palazzi, con i suoi analizza le varie ipotesi sul tappeto. Tutto il Pd, non solo quello dei suoi detrattori, direbbe sì ad un «governo delle regole», ma se fosse mai varato tale progetto con l’adesione di altri attori protagonisti, un’altra querelle scoppierebbe sulla presenza di ministri Dem nella compagine. Comunque sia, la vera questione in ballo nella diatriba interna ai Dem ruota attorno al nuovo centrosinistra con i pentastellati «che sarebbe la fine del Pd», per dirla con Renzi. E la lotta di potere nel partito ne è la cornice.

 

La tesi dell’ex premier riferita dai suoi compagni di strada è che il vero regista di tutta l’operazione per puntellare Maurizio Martina, ovvero Dario Franceschini, ha finito per sortire l’effetto opposto. Se tutto va bene, il «reggente» oggi vedrà confermata la fiducia anche dai renziani, ma per una decina di giorni. Perché Renzi e Orfini pensano di convocare l’assemblea il 12 maggio e lì potrebbe compiersi la famosa resa dei conti, con due esiti possibili: o la salita al trono del Pd di Lorenzo Guerini o Ettore Rosato per il ruolo di segretario fino al congresso di là da venire; o la convocazione delle primarie a breve per scegliere il nuovo leader anticipando così le assise congressuali.

 

Da giorni – così Renzi ne parlava ieri pomeriggio con i suoi – Franceschini voleva la conta per dimostrare che il perimetro della ex maggioranza è cambiato, ma il documento «pacifista» di Guerini («sì al confronto ma niente fiducia a un governo guidato da Salvini o Di Maio») porta in dote a Renzi le firme di 120 membri della direzione. E non era scontato, visto anche tra i suoi più d’uno nutriva perplessità sul metodo, come Matteo Richetti che non l’ha firmato pur essendo d’accordo nel merito. In contatto con Lotti, Guerini, Rosato e Marcucci, l’ex segretario spulcia i nomi dei 39 senatori su 53 e dei 77 deputati su 111 in calce al documento che anticipa la conta di oggi.

 

Fa nulla che dall’altra parte l’abbiano preso non male, malissimo, come il sito «senzadime.it» con le «liste di proscrizione» sui favorevoli o contrari all’accordo. O che abbiano capito che il voto di fiducia a Martina di fatto lo obbligherà a non fare alcun accordo con i grillini. Per Renzi l’importante è uscire da questa Direzione avendo ribadito chi comanda e con un partito non spaccato plasticamente. Potendo dire che «non si può votare la fiducia al governo Di Maio, perché così la pensa la stragrande maggioranza della nostra base, del nostro elettorato, dei nostri gruppi parlamentari».

LA STAMPA

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