Elezioni 2018: l’errore? Trascurare il non voto

Non è vero che all’Italia non importi nulla delle prossime elezioni e in genere della politica. C’è un’Italia profonda che magari non la segue, anche perché ha altro da fare, però non la disprezza. Un’Italia che ascolterebbe volentieri, se qualcuno le parlasse. Che ha le idee chiare su cosa le servirebbe, ma non trova un interlocutore disposto a dialogare, anziché turlupinarla con promesse impossibili. Non ci sono mai stati tanti indecisi come adesso. Tramontate le ideologie, indeboliti i leader, allentati i legami personali e clientelari (se non altro per l’esaurimento delle prebende da distribuire ai clienti), i voti in libera uscita sono quasi la metà del totale. Perché allora i partiti li disdegnano, e si rivolgono solo a chi è già convinto? Finora la campagna elettorale è diretta più a rinfocolare i tifosi che a conquistare coloro che esitano a schierarsi.

I capi partito hanno l’atteggiamento del centravanti cha aizza la curva, non del regista che prepara gli schemi per vincere. Se tra Lega e Forza Italia è in corso una competizione interna a chi propone l’aliquota più bassa per la flat tax, il Pd vagheggia di abolire il canone Rai. A tutti piacerebbe pagare solo il 23% di Irpef — ma perché non il 20? O il 15? — e non pagare il canone; ma quasi nessuno ci crede, perché sa che sono promesse irrealizzabili, a meno di non tagliare drasticamente la spesa pubblica e non chiudere la tv di Stato; e i primi a non crederci sono coloro che le formulano.

Per tacere dei Cinque Stelle, che propongono di fatto lo smantellamento del fisco, o della trovata di Grasso sulle tasse universitarie, in realtà già legate al reddito familiare. A giudicare anche dalle lettere che arrivano al Corriere, l’irritazione per la promessa facile e irresponsabile si tocca con mano. Ma non è vero che il voto non interessi a nessuno. Certo, molti cittadini non ci credono più. Sono disinteressati a una politica che non detiene più il potere vero, evaporato a favore dei padroni della rete e della finanza internazionale, degli Zuckerberg e dei Soros.

Sono nauseati dal ritorno dei privilegi: i primi sostenitori dell’antipolitica sono i senatori che non prendono in considerazione la legge per ridurre i vitalizi, i consiglieri regionali che lasciano tacitamente scadere i tagli e si ripristinano gli emolumenti. Nonostante i sentimenti di estraneità e di rigetto, molti elettori però percepiscono ancora il voto come un impegno civico, un dovere di partecipazione. Sono disposti ad ascoltare, a discutere, a decidere, a patto che siano affrontati gli argomenti della loro vita di tutti i giorni: lavoro, pensioni, scuola, sanità. Come creare posti non precari, come sostenere l’aumento dei trattamenti minimi, come attuare o cambiare le riforme del governo Renzi, come affrontare il dramma delle liste d’attesa negli ospedali; e come risolvere la questione salariale, con il crollo del potere d’acquisto seguito alla crisi. Se un leader si occupasse in modo serio e concreto di questi argomenti, i sondaggi di questi giorni potrebbero rivelarsi scritti sull’acqua, e l’esito delle elezioni potrebbe ancora cambiare. Tutto però lascia credere che l’Italia indecisa ma non disinteressata resterà senza interlocutori. Alla fine tanti resteranno a casa. La maggioranza andrà ancora alle urne. Come già accadde nel 2013, com’è successo anche con Trump, Brexit, Macron, negli ultimi giorni si creerà comunque una tendenza sotterranea, che i sondaggi non riusciranno a intercettare. E forse alla fine premierà chi avrà saputo essere più serio, o meno fatuo.

CORRIERE.IT

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