Kiss me Checco

Siamo qui, davanti al tribunale del Politicamente Corretto, allo scopo di giudicare l’imputato Zalone Checco, accusato dalla comunità gay di grettezza, oltraggio e tentata ricostituzione del partito fancazzista per essersi permesso di pronunciare l’espressione «frocio» durante una parodia televisiva della canzone Kiss me Licia di Cristina D’Avena. Nel dare fiato alla parola proibita lo Zalone ha sorriso, come fanno i bambini quando sanno di dire qualcosa di trasgressivo. Era quindi nel pieno possesso delle sue facoltà mentali di saltimbanco smanioso di suscitare una reazione negli spettatori.

Chiedo alla giuria di abbandonare lo stato di indignazione permanente in cui vive e di osservare la questione con la stessa lucidità di chi l’ha creata. Ogni testo dipende dal contesto: il «frocio» canticchiato sul palco da un comico non è identico a quello pronunciato per strada da un energumeno armato di mazza. E sarebbe disonesto, e un po’ ricattatorio, affermare che l’energumeno viene legittimato dal comico. Se esiste una speranza che l’energumeno posi la mazza e cominci a rispettare gli altri, questa passa dall’effetto terapeutico del riso. Un grande comico costringe il pubblico a specchiarsi nei tabù della sua epoca. La risata non sale al cervello, ma scende direttamente nel cuore e lo lava dalle incrostazioni del perbenismo. Propongo perciò di condannare l’imputato Zalone Checco ai lavori forzati televisivi, mandandolo in onda ogni sera fino a quando il potenziale eversivo delle parole proibite si sarà dissolto in un gigantesco sghignazzo.

CORRIERE.IT
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