La natura violenta e le nostre colpe

L’alluvione del fiume Yangtze nel 1931 fece secondo le autorità cinesi 145 mila morti. Moltiplicati dalle fonti occidentali fino a quattro milioni. E lì sì, probabilmente, poteva avere un senso scagliare un’invettiva contro la natura assassina. Ma a Livorno? Che senso ha addossare la morte dei sei poveretti a un nubifragio o peggio ancora alla rivolta del Rio Maggiore? Certo, la natura sa essere violentissima. E ce lo hanno ricordato ancora in questi giorni il terremoto nel Chiapas di 8.2 gradi della scala Richter e l’uragano Irma che ha fatto temere agli americani, con la sua immensa forza distruttrice, disastri superiori a quelli seminati nel 1780 dal Great Hurricane che devastò le Antille uccidendo almeno ventiduemila persone.

Ma non è questo, il caso. Lo diceva già Wikipedia «prima» di ieri: «Anticamente il Rio Maggiore arrivava fino al Mar Ligure, 500 metri più a ovest, ma alcuni lavori eseguiti nel corso dell’Ottocento ne modificarono il corso per permettere la costruzione di numerose ville sul lungomare di Livorno». E una Relazione geologica del Comune di Livorno, nel 2011, lo confermava. «A causa dell’aumento dell’urbanizzazione intervenuta nella zona — si legge nella Relazione — unitamente alle insorgenti esigenze sanitarie, subito dopo il Cimitero della Misericordia e fino alla foce, il tratto terminale dell’asta è stato man mano coperto negli anni ‘70-’80. Il tratto tombato…». Nessun problema, spiegava lo «Studio idrologico-idraulico complessivo» sul corso d’acqua: «Nella cartografia di pericolosità idraulica del Piano di Assetto Idrogeologico l’area in studio non risulta interessata da zone in Pericolosità Idraulica Molto Elevata (Pime) e/o Elevata (Pie)». Sic… Era già successo anni fa a Soverato dove il torrente Beltrame, ingrossato dalle piogge, si ribellò al cemento che lo ingabbiava seminando morte nel camping «Le Giare».

E poi nel rione genovese di Quezzi tirato su nella valletta del torrente Fereggiano e ancora nel cuore della città, dove i lavori urgentissimi per contenere i ripetuti allagamenti del torrente Bisagno sono sospesi perché è fallita la società che aveva vinto l’appalto con un ribasso del 43%. E poi a Olbia e da tante altre parti ancora perché, denuncia Legambiente, «si continua a tombare corsi d’acqua credendo così di metterli in sicurezza» ottenendo il risultato contrario. Un esempio? Messina. Dove 27 dei torrenti che calano verso il mare solcando la città (27 su 52!) sono appunto tombati. E pronti, al primo acquazzone più violento, a dispensare nuovi lutti. Nell’indifferenza di costruttori impazienti di posare nuovi ipermercati e condomini in canaloni a rischio. Basti rileggere una cronaca del 2010 di Francesco Celi, colpito dall’edificazione della «ennesima palazzina» che mostrava «su un fianco cinque ferite, squarci provocati da movimenti franosi»: «Quel che sta accadendo nella parte alta del torrente Trapani è rabbrividente».

Spiega l’ Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale in uno studio recente che il consumo di suolo effettivo «a meno di 150 metri da corpi idrici permanenti» vede una media italiana del 5,2%, col Veneto al 6,9%, il Piemonte al 7,2%, il Trentino all’8,0%. Per non dire della Liguria (dove Rapallo chiede da anni l’abolizione dai dizionari della parola «rapallizzazione») che svetta addirittura al 19,2%. Quanto al cemento «all’interno delle aree a pericolosità idraulica» nel Veneto occupa il 9,6% del territorio, in Trentino il 10%, in Emilia-Romagna e in Toscana l’11%, nelle Marche il 13%. Con uno stratosferico 30,1% in Liguria. Prova provata, se mai ce ne fosse bisogno, della cecità con cui per anni si è costruito e si continua a costruire. Confidando nella buona sorte. Il tutto in un Paese dove «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischi frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati)», «riguardano l’89% dei comuni (6.631)» e sono colpite dal «68% delle frane europee».

C’è chi dirà: è colpa del clima che cambia! No, non tutta. I nubifragi, anche se il sommo poeta non avrebbe potuto chiamarle bombe d’acqua, c’erano anche ai tempi di Dante Alighieri che nell’Inferno descrive una tempesta in Lunigiana: «Tragge Marte vapor di Val di Magra / ch’è di torbidi nuvoli involuto; / e con tempesta impetuosa e agra». E un secolo e mezzo fa Jessie White Mario, nella cronaca dei funerali di Garibaldi, confermava: «Il cielo quasi si velò come alla morte del Giusto, e gli elementi scatenati aggiunsero il loro fragore a quello del cannone, e i venti schiantarono le bandiere…». Ci sono sempre stati, gli improvvisi diluvi. È l’ambiente, che troppo spesso non è più in grado di sopportare i cazzotti più violenti della natura. Perché siamo noi ad averlo stravolto. Per poi piangere, Dio ci perdoni, lacrime di coccodrillo.

CORRIERE.IT

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