Primarie Pd, vince Renzi La doppia agenda del neosegretario

La partecipazione è stata superiore alle previsioni, sebbene inferiore di quasi il 30% rispetto al 2013. Non era scontato, col «ponte» del 1° Maggio; e questo è un buon segno non solo per il Pd ma per la democrazia italiana. Matteo Renzi torna segretario del partito, con percentuali quasi schiaccianti e una scenografia trionfale che mette tra parentesi le ultime sconfitte: i primi dati parlano di circa il 70% di consensi. Le primarie hanno avuto una funzione liberatoria soprattutto per lui.

Doveva cancellare le frustrazioni accumulate in quelli che ha chiamato «cinque mesi difficili»: dal referendum istituzionale perso il 4 dicembre, all’uscita da Palazzo Chigi, fino alla scissione, che però non sembra avere prodotto troppi danni. Il problema, ora, è come il leader dei Dem userà la nuova investitura; come riempirà «la pagina bianca» che vede davanti a sé. I suoi esegeti assicurano che è cambiato, più inclusivo; che i primi gesti non vanno letti come conati di rivincita; che Renzi, dopo avere voluto e vinto il blitz congressuale, ne prepari un altro sulla legge elettorale, con il calcolo recondito di forzare magari la mano e arrivare alle urne in autunno. La legittimazione ricevuta dal Pd gli restituisce un forte potere contrattuale. La possibilità che si arrivi a una riforma del sistema del voto entro breve tempo, tuttavia, non è scontata. Sulla strada di Renzi si stagliano partiti poco disposti a assecondare la strategia dem. E, qualora il vertice del Pd tentasse la scorciatoia del voto senza cambiare la legge, troverebbe non solo le opposizioni parlamentari ma quella del Quirinale. Sergio Mattarella vuole evitare un Parlamento con maggioranze diverse e dunque un’Italia ingovernabile.

In più, il governo di Paolo Gentiloni si sta guadagnando una credibilità internazionale che sarebbe pericoloso buttare via: tanto più per mano del suo stesso partito. Eppure, nel Pd si accredita la tesi di un esecutivo troppo debole per decidere davvero. Per questo, un Renzi rafforzato dalla rielezione potrebbe accarezzare un voto quanto prima; per formare poi un governo in grado di scrivere una Legge di stabilità non imposta dalla Commissione europea. Il tentativo è di agganciare l’onda delle presidenziali francesi e delle elezioni tedesche in autunno, nella convinzione di sconfiggere il Movimento 5 stelle.

D’altronde, l’irritazione e i sarcasmi di Beppe Grillo e del leghista Matteo Salvini sulle primarie lasciano capire che sono rimasti, come minimo, spiazzati dai numeri. Ma forse il primo che non se li aspettava era Renzi, che aveva abbassato l’asticella del successo a un milione di votanti. La conseguenza più probabile del suo ritorno alla guida del Pd, tuttavia, promette di essere un’altra: un’ipoteca più stringente sull’agenda del governo, in particolare sulla in politica economica.

Le tensioni col ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e i cosiddetti «tecnici» alla Carlo Calenda, sono presagi di un irrigidimento che si proietta sulle istituzioni europee. L’impressione è che il vertice Dem vorrà piegare l’esecutivo a scelte «popolari» in vista delle urne. La sfida non è solo a Grillo. Il primo fronte da presidiare è una sinistra cambiata in profondità. Renzi sa di dover recuperare credibilità tra le centinaia di migliaia di persone che si sono allontanate dal Pd. L’obiettivo è di arginare le spinte centrifughe residue e i tentativi di creare un’«altra sinistra», alternativa alla sua. Ma soprattutto, deve convincere un’Italia che negli ultimi mesi lo aveva bocciato quasi senza appello: convincerla non tanto e non solo di essere cambiato, ma di avere capito gli errori commessi e di non volerli ripetere. Altrimenti, butterebbe un’occasione che potrebbe essere l’ultima.

CORRIERE.IT

 

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