L’inerzia dei partiti e la politica che gira a vuoto

Sono passati quasi cinque mesi dal referendum costituzionale e la palude è diventata il luogo esistenziale della politica. Prima e dopo la consultazione abbiamo ascoltato annunci e richieste poco credibili. «Se vince il no possiamo fare una nuova riforma in pochi giorni», promettevano gli oppositori di Renzi. «Dobbiamo andare al voto immediatamente», chiedeva l’ex premier dopo la sconfitta, nonostante l’assenza di una legge elettorale e il problema dei sistemi di voto diversi tra Camera e Senato.

Invece di riflettere sulle scelte degli italiani, invece di interrogarsi su come stavano cambiando il mondo e l’Europa dopo la Brexit e la vittoria di Trump, invece di ricostruire pazientemente una proposta politica e di leadership tutto è diventato un gioco di corto respiro. Conta la battuta a effetto, il colpo all’avversario, meglio se del tuo stesso schieramento. Odi, rivalità, scissioni, avvertimenti a un governo appena nato che ha dovuto scegliere il basso profilo per ragioni di sopravvivenza.

Della nuova legge elettorale, condizione indispensabile per andare alle urne, si sono perse le tracce. Tutto è rinviato alla fine delle primarie del Pd. Poi ci sarà il G7, poi le vacanze estive… È misteriosa la ragione per cui durante le primarie il Parlamento non possa lavorare alla riforma.

E perché non si ragioni seriamente su una proposta che, tenendo conto delle indicazioni della Corte costituzionale, garantisca oltre la rappresentanza anche un minimo di governabilità. Con l’introduzione di un ragionevole premio di maggioranza che serva almeno a capire, il giorno dopo il voto, quale partito o quale polo avrà il compito di assicurare un governo al Paese. Altrimenti la palude potrebbe solo generare il caos: nessuna maggioranza, moltiplicazione di partiti e partitini, nuova chiamata alle elezioni.

Un percorso razionale richiede un impegno serio anche su un altro fronte: le misure per l’economia, per non soffocare quel po’ di ripresa in corso, per rassicurare i mercati sulla tenuta dei nostri conti pubblici. Gentiloni e Padoan hanno l’occasione di dimostrare le loro capacità su questi punti. Possono anche scrollarsi di dosso un profilo troppo cauto, troppo attento ai veti e alle imposizioni del Pd renziano, dei centristi e di Mpd. E possono difendere dagli assalti qualche ministro entrato nel mirino della maggioranza pd. La stagione del renzismo delle origini è finita. Tante delle promesse di partenza (la riduzione dell’Irpef ad esempio) sono svanite. Prima l’ex premier ne prende atto, e costruisce una strategia alternativa, meglio è per se stesso e per il suo partito.

Un discorso a parte meritano i Cinque Stelle: molti si stupiscono della loro tenuta (se non crescita) nei sondaggi elettorali. Nonostante alcuni disastri amministrativi, a Roma, e alcune scelte discutibili come quella di Genova dove la famosa democrazia della Rete è stata sostituita dal classico «qui comando Io». Il Movimento prospera sulla contestazione dei partiti tradizionali, l’avversione nei loro confronti pesa più di ogni altra cosa. Il M5S è una lavagna su cui ognuno può scrivere la sua rabbia, la sua protesta individuale e collettiva, i suoi desideri. Se tutto ciò diventerà un progetto politico nessuno lo sa. Quello che si vede ora è a tratti preoccupante. I leader del Movimento, visto che si candidano a essere maggioranza, dovrebbero porsi seriamente (non solo enunciandolo) il tema del governo, delle competenze, della responsabilità. Lo devono a quel terzo di italiani che danno loro fiducia, ma anche a tutto il Paese.

CORRIERE.IT

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