Catene, coltelli e rapine. L’odio della baby-gang che terrorizza Bolzano

La testimonianza: «Rispondo in italiano – dice il capo della banda al gip -. Gioco a pallone e basta. Solo una volta sono scappato dai vigili, avevo bevuto tanto»

niccolò zancan
inviato a bolzano

Non vanno più a scuola. Dormono per strada. Conoscono i loro numeri di telefono a memoria perché sono, l’uno per l’altro, una specie di nuova famiglia. Ma è una famiglia rabbiosa, come forse non si era ancora vista in Italia. Registrati dalle telecamere, parlano così: «Hey, maglietta rossa, che cazzo vuoi? Guarda questa cagnetta alla cassa, guarda che troia! Sai chi siamo? Siamo la baby-gang».

 

Sono i ragazzini difficili di Bolzano. Picchiano i coetanei. Fanno piccoli furti. Odiano la polizia. «E hanno dentro questa rabbia incredibile che ci interroga» dice Antonella Fava, capo della Procura per i minorenni. «Una volta si sono messi a saltare sui cofani di tre volanti, urlavano e irridevano gli agenti. È stato difficile venirne a capo». Sono nati quasi tutti a Bolzano, figli di migranti arrivati alla fine degli Anni Novanta dal Pakistan, dal Marocco, dal Perù e dall’Albania. Genitori apparentemente inseriti. Talvolta situazioni economiche difficili, ma conosciute e seguite dai servizi sociali. È una baby-gang che si è autonominata tale, forse sulla scia dei primi articoli usciti sulla stampa locale. Durante una rapina al supermercato Despar, addirittura hanno scritto il loro marchio sul volantino delle offerte.

 

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Una banda di bambini, dunque. Il nucleo è formato da quindici componenti di età compresa fra 11 e 16 anni. Sono sulla scena da un anno. L’ultima aggressione è del 7 marzo. Vanno in quattro, con i cappucci delle felpe calati in testa, dentro un garage condominiale per rubare uno scooter. Quando la polizia, alle 3 del mattino, rintraccia due di loro per strada, uno colpisce il poliziotto, lo ferisce e riesce a scappare, per poi tornare a casa al mattino e finire in carcere. L’altro, invece, è stato portato in una comunità, che ha praticamente distrutto a furia di calci e pugni. L’avvocato Giovanna Cipolla conosce bene questi ragazzini, per averli incontrati e difesi in tribunale. Ma proprio ieri ha gettato la spugna: «C’è qualcosa che non funziona. Stiamo fallendo. Tutto quello che abbiamo messo in campo in questi mesi per cercare di portarli dalla nostra parte, in realtà li ha allontanati. Ci mancano gli strumenti giusti per affrontare questo fenomeno nuovo. Mi dispiace molto, in particolare nei confronti della madri. Ma ho rimesso il mandato».

 

Cos’è quest’odio che non passa? Ragazzini che sputano in faccia ai carabinieri, picchiano i coetanei senza nemmeno un pretesto. Spesso si ritrovano al centro commerciale Twenty, birra e Red Bull. Inseguono uno studente a caso, dal McDonald’s verso l’Istituto professionale Gutenberg, brandendo un coltello e una catena in mezzo alla strada. Uno grida: «Lo ammazzo!». E poi giù botte: «Frattura falange distale, trauma cranico facciale, contusione giudicata guaribile in 20 giorni». Lo prendono a calci in faccia. Neppure il personale scolastico riesce a placare questa furia.

 

 

Sono delle spedizioni punitive. Ventun procedimenti penali a loro carico. Fra cui anche il furto di alcune coperte servite, appunto, per passare le notti fuori insieme. I primi processi sono in corso. Sette minori sono stati tolti alle famiglie ed affidati a diverse comunità.

 

«È un gruppo composito, questa è la prima particolarità», dice ancora il procuratore capo Antonella Fava. «Ragazzini provenienti da quartieri lontani, origini diverse, che hanno frequentato anche scuole differenti, prima di smettere di presentarsi in classe. E tutti ci siamo domandati cosa li avesse fatti incontrare». Già a giugno la banda dei ragazzini era stata contrastata con dei provvedimenti molto seri, tenendo conto del fatto che tutti, tranne due, erano addirittura minori di quattordici anni. Eppure il gip ha scritto: «Un altro aspetto che caratterizza gli appartenenti a questo gruppo e desta notevole allarme, oltre che denotare pericolosità sociale, è la sfrontatezza, l’assoluto mancato rispetto e la mancanza di timore per l’autorità, dimostrato ripetutamente nei confronti delle forze dell’ordine. Anche i più giovani appartenenti alla gang non hanno esitato, in più occasioni, ad offendere e ingiuriare carabinieri e poliziotti intervenuti, anche sputando loro addosso».

 

Succede in una provincia che con 17.265 reati denunciati nel 2015, ultimo dato statistico disponibile, vede un calo significativo di quasi tutti i reati: rapine -8,3%, furti -14,2%. Il che significa 33,2 reati ogni mille abitanti contro la media italiana che è invece a 44,2. Un posto quasi tranquillo, insomma. Prima della comparsa dell’odio.

 

I capi della banda sono i due più grandi, un ragazzino di origini pakistane e un altro di origini marocchine. I servizi sociali sul primo annotano: «I genitori non hanno alcun sistema educativo di riferimento, né in termini contenitivi né di sostegno e accompagnamento alla crescita». Il vicepreside definisce il rendimento scolastico del secondo, almeno fino quando ha frequentato la scuola, con due parole: «Molto scarso». Forse questa storia anticipa un po’ del futuro italiano.

 

 

L’educatore del centro giovanile Charlie Brown, costretto a chiudere per qualche giorno per le scorribande della baby-gang, si chiama Andrea Vigni. Anche lui li conosce: «Sono migranti di seconda generazione. Non riescono ancora a riconoscersi nella nostra cultura e hanno perso il riferimento della loro, sono sballottati fra identità diverse. Ma se potessimo raccontare nel dettaglio ogni singola storia, credo che allora potreste comprendere le difficoltà di ognuno di questi ragazzi. E calerebbe l’ansia che c’è nei loro confronti».

 

La madre del capo della baby-gang lavora all’ospedale di Bolzano. Vive con altre due figlie in un palazzo di periferia, molto ordinato e luminoso. «Mio figlio è cambiato nel giro di quindici giorni», dice. «Si è trasformato. Non so perché. Sono sconvolta». Ed ecco lui, infine, il capo della banda, interrogato dal giudice: «Intendo rispondere alle domande, scelgo la lingua italiana. Io non ho tirato nessun calcio al poliziotto che mi ha inseguito. Lui è caduto perché il terreno era in discesa. Sono scappato via perché non volevo andare a casa con la polizia. Attualmente sto giocando a pallone, non faccio altro. In relazione alle segnalazioni di resistenza a pubblico ufficiale, dichiaro che solo una volta sono scappato, ma non ero cosciente perché avevo bevuto tanto. In relazione al fatto dei vigili, non so perché mi hanno messo le manette. Io mi ero picchiato con un ragazzo che non mi lasciava finire la birra».

 

Adesso è in carcere. Lo è per la seconda volta negli ultimi sei mesi. Forse davvero stiamo perdendo questi ragazzi, ancora prima che diventino adulti. «Mi sono domandata a lungo da dove arrivasse la loro rabbia e se ci fosse qualche parallelismo con certe situazioni delle periferie francesi», dice il procuratore capo Antonella Fava. «È difficile rispondere. Un fatto che li accomuna è la mancanza di figure paterne di riferimento. Ma se li vedi da soli, lontani dalle dinamiche del gruppo, tornano ad essere semplicemente dei bambini. Dei bambini pieni di collera che un giorno potrebbero diventare preda di qualcuno. È qualcosa a cui penso con grande preoccupazione».

 LA STAMPA

 

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