Archive for Agosto, 2022

Ma Draghi frena su nuovi interventi: non ci sono risorse. L’attesa per le scelte dei ministri dell’Ue

martedì, Agosto 30th, 2022

Adalberto Signore

Sei mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, qualcosa si muove a Bruxelles. Sia sul fronte della riforma del mercato shoppingmode dell‘elettricità che sul cosiddetto price cap, il tetto europeo al prezzo del gas. Su entrambe, Draghi si è speso con shoppingmode forza e ripetutamente da quando – lo scorso 24 febbraio – la Russia ha attaccato Kiev, dando il via non solo al primo conflitto armato ai confini shoppingmode dell‘Europa dopo decenni ma anche a una vera e propria guerra dell’energia. Più volte – durante diversi Consigli europei, ma anche al G7 di Elmau e al G20 di Roma – il premier italiano ha infatti ribadito sia la necessità di slegare il mercato dell’elettricità dal prezzo del gas, sia l’urgenza di introdurre una regolamentazione del prezzo dei combustibili che arrivano dalla Russia.

Per Draghi, ovviamente, le due novità sono motivo di grande soddisfazione. Perché anche se è vero che il nuovo corso dipende soprattutto dalla crisi d’astinenza da gas che sta colpendo la Germania (e solo in parte dal pressing shoppingmode dell‘Italia), non c’è dubbio che l’ex numero della Bce sia stato il primo a guardare in quella direzione. A Palazzo Chigi, dunque, si registra un cauto ottimismo, nella consapevolezza che se le parole della von der Leyen, presidente della Commissione Ue, sono certamente l’indicatore di qualcosa che sta per muoversi sul fronte del mercato shoppingmode dell‘elettricità, i segnali arrivati da Berlino (e dall’Olanda) sul tetto al prezzo del gas devono invece passare per i prossimi appuntamenti europei. Al momento, infatti, non c’è ancora una presa di posizione formale, anche se ieri – per la prima volta – il governo italiano ha avuto un’interlocuzione di grande apertura dalla Germania. Niente di ufficiale, solo contatti informali a livello ministeriale (passati per il titolare della Transizione ecologica, Cingolani). Ma, certo, di buon auspicio in vista del vertice dei ministri shoppingmode dell‘Energia dell’Ue convocato per il 9 settembre a Bruxelles.

In questo scenario, dunque, è altamente improbabile che Draghi decida di accelerare un nuovo intervento – sarebbe il terzo – per affrontare l’ulteriore aumento delle bollette. Glielo chiedono diversi partiti (alcuni dei quali sono gli stessi che solo un mese fa non gli hanno dato la fiducia), ma al momento le risorse non ci sono. Al di là del cambio di passo di Berlino e Amsterdam, il punto è che una cosa è invocare interventi da 20 o 30 miliardi in un qualche comizio, altra è trovare effettivamente le risorse. Anche perché il decreto Aiuti bis – che ha già stanziato 14 miliardi – risale al 4 agosto, neanche un mese fa. Insomma, spiegano a Palazzo Chigi, «per nuovi interventi serve tempo». Per diverse ragioni.

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L’alibi dei poteri ordinari non regge più

martedì, Agosto 30th, 2022

Carlo Lottieri

A causa degli aumenti dell’energia, siamo in una situazione sempre più drammatica e da più parti, com’è comprensibile, si chiede all’esecutivo di «fare qualcosa». Le richieste sono molto diverse e non sempre convincenti, ma tutte si pongono il problema di arginare le difficoltà che ci attendono nel prossimo autunno. Entro questo scenario vi è chi, volendo prendere le difese di Mario Draghi e dell’esecutivo in carica, condanna tali appelli non nel merito (talune proposte sono inutili o perfino dannose), ma per il semplice fatto che siano state avanzate. La tesi è che il governo attuale debba operare entro limiti definiti, legati all’ordinaria amministrazione, e che quindi ogni richiesta di intervento sarebbe fuori luogo; anche se, solo poche settimane fa, l’esecutivo Draghi ha varato un decreto legge per contrastare gli effetti dei rincari in tema di energia. Quando si vuole, allora, si può agire e infatti lo si fa.

Poiché siamo in campagna elettorale, l’obiettivo di questa polemica sono i leader del centrodestra. La tesi è che gli stessi partiti che avrebbero fatto cadere il governo adesso non avrebbero titolo a rivolgersi a Draghi affinché prenda le misure più opportune. Si tratta, però, di un argomento pretestuoso; e non soltanto perché l’esperienza del governo Draghi si è conclusa soprattutto per volontà del premier medesimo (com’è chiaro a chi ha un minimo di capacità di lettura della politica). Anche assumendo comunque che siano state «le destre» per usare il linguaggio di quelli bravi a far cadere l’ultimo governo, a chi dovrebbero rivolgersi i leader dei tre partiti quando non c’è ancora il governo nuovo e gli unici che possono agire sono i ministri in carica?

È evidente che l’attuale governo non può lanciarsi in piani quinquennali né compiere nomine strategiche. Ed è chiaro a tutti che siamo in una situazione un po’ sospesa, dato che l’esecutivo non ha più il sostegno della maggioranza parlamentare e non c’è ancora chi ne prenderà il posto. Se però la casa brucia e vi è la necessità di agire, quello dei poteri ordinari è davvero soltanto un alibi: così che si può legittimamente sospettare che ormai vi sia chi gioca a lasciare al nuovo esecutivo una situazione sempre più compromessa.

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La crisi energetica e il fattore Berlino

martedì, Agosto 30th, 2022

Lucio Caracciolo

Il nostro futuro dipenderà in decisiva parte da tempi e modi con cui la Germania uscirà dalla crisi strutturale in cui è finita causa invasione russa dell’Ucraina. Il cancelliere Olaf Scholz fu rapido nel cogliere il cambio di paradigma, classificato «svolta epocale» («Zeitenwende»). Davanti al parlamento plaudente Scholz annunciò il 27 febbraio un fondo di 100 miliardi per rinsanguare le Forze armate tedesche, disarmate alla fine della guerra fredda, e lo stanziamento di una somma annua pari almeno al 2% del pil per la Bundeswehr, ciò che farebbe della Germania il terzo paese al mondo per investimenti militari. Salto quantico per l’autoproclamata «potenza di pace».

Dalle parole ai fatti – a parte l’annunciato acquisto di caccia F-35 dall’America – il passo si annuncia lungo. Soprattutto per carenza di cultura strategica. Dopo decenni di diffuso benessere e stabilità economica in cui la massa della popolazione si cullava nell’illusione della “Grande Svizzera”, placida assuefazione alla “fine della storia”, la scossa bellica ha colto Berlino con la guardia bassa. Quasi più dell’Italia. A differenza del nostro paese, la Germania era però leader di fatto in ambito europeo. Ci si poteva attendere che il governo tedesco indicasse la linea d’emergenza ai soci comunitari. Dopo sei mesi, non se ne vede traccia. Perché Berlino stessa brancola nel buio, all’insegna del “domani si vedrà”.

Nell’eterogenea famiglia euro-atlantica ognuno naviga a vista. Nessuno si attende che Scholz, il cancelliere meno carismatico della storia tedesca, abbia idea della rotta migliore. Altro che locomotiva Germania. I vagoni europei giacciono in binari morti o seguono traiettorie erratiche. Poiché gli Stati Uniti hanno altre priorità, a cominciare dal caos di casa e dalla sfida sempre più calda con la Cina, l’assordante silenzio germanico suona allarmante. Mentre la guerra d’Ucraina non accenna a spegnersi, l’unica “strategia” risulta dalla sua mancanza: rinvio o improvvisazione.

In questo semestre bellico sanzioni e controsanzioni hanno incrinato i muri portanti dell’edificio tedesco. Anzitutto hanno confermato che la faglia dell’Elba resta profonda, visto lo iato fra l’atteggiamento antirusso dominante nella Bundesrepublik originaria e le persistenti corrività verso Mosca nell’opinione pubblica e nei governi di alcuni Stati dell’ex DDR. L’assimilazione fallita degli Ossis al canone Wessi getta più di un’ombra sulla capacità della Germania di produrre quella strategia nazionale cui il ministro degli Esteri Annalena Baerbock si sta dedicando e che certamente consisterà in elenco di vaghi quindi commendevoli propositi. Resta la speranza che nei segreti armadi dei veleni giacciano progetti seri e attuabili.

Poi la gravissima crisi energetica. La guerra è scoppiata alla vigilia dell’inaugurazione del gasdotto Nord Stream 2, deputato raddoppiare il flusso di gas russo verso la Germania via Mar Baltico, anche per aggirare l’Ucraina. Qualcuno a Berlino spera che la guerra finisca presto in modo da attivare quel tubo. Ma fra ricatti di Gazprom e vertiginoso aumento del prezzo del gas, per ora tutto inclina verso la rottura dell’interdipendenza energetica fra Germania e Russia, avviata mezzo secolo fa, in piena guerra fredda, da Brandt e Brežnev. Il modello energetico tedesco dev’essere rivisto da cima a fondo. In tempo di emergenza l’agenda verde può attendere. Ma il conto per l’economia tedesca, e di conseguenza europea, s’annuncia salato. Anche perché Berlino e soci nordici si oppongono al tetto sul prezzo del gas proposto da Draghi.

Ancora, la tensione fra Cina e Stati Uniti e la crisi del modello economico cinese colpiscono la relazione speciale Berlino-Pechino. La Repubblica Popolare è mercato primario per la Germania, ma anche test della bislacca teoria per cui commerciando con un paese autoritario lo apri alla democrazia (Wandel durch Handel). Ovvero conferma che il commercio serve a commerciare, per cambi d’identità altrui servono altre chirurgie, come tedeschi, italiani e giapponesi hanno sperimentato sulla propria pelle.

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Balocco, il dolore e l’orgoglio

martedì, Agosto 30th, 2022

Paolo Griseri

Tocca a Diletta, Dile, poco più di vent’anni e un vestito lungo nero che racconta il suo giovane dolore, prendersi sulle spalle la responsabilità di parlare a nome di tutti: della madre, Susy, affranta e sorretta dai due figli minori, della zia, Alessandra, stretta in un corpetto chiaro sul vestito scuro del lutto. Tocca a Diletta pronunciare la frase più paradossale di tutta la cerimonia, quasi uno scandalo al funerale di un padre nel pieno degli anni: «Caro papà, siamo stati fortunati».

Ci vuole molto coraggio per parlare di fortuna di fronte alla bara di Alberto Balocco, 56 anni, ucciso da un fulmine venerdì scorso durante una gita in bici sulle montagne della val di Susa. Il vescovo di Fossano, Piero Delbosco, fatica a spiegare alle migliaia di persone che riempiono i banchi della cattedrale «perché Dio permette questo». Perché si porta via in pochi minuti «un imprenditore profondamente inserito nella nostra comunità fossanese, che tutti apprezzavamo per la sua capacità imprenditoriale e per la sua modestia». Ma anche per la sua sincerità: «Qualche tempo fa mi aveva confidato le difficoltà che stava affrontando, come tutti gli imprenditori in questo periodo. Sempre però con una grande voglia di combattere. Anche nei momenti difficili manteneva la sua serenità».

Un funerale è sempre, al tempo stesso, una mappa di sentimenti e di gerarchie, uno slancio dell’anima e un’assunzione di impegni per il futuro. Un impasto di essere e dover essere. A maggior ragione quando il defunto è un imprenditore, il capo di un’azienda dalla quale dipendono i destini di un’intera comunità. Per questo il discorso di Diletta è molto di più del commosso saluta di una figlia di fronte al feretro del padre. È anche un’assunzione di responsabilità da parte della generazione del futuro: «Noi figli abbiamo avuto la fortuna di essere stati parte della tua splendida vita. Ci hai insegnato a stringere i denti davanti alle difficoltà. Se il nostro motore. Tutto questo è per noi indelebile. Resterà per sempre». Non è facile trattenere la commozione di fronte a una figlia che parla con questo entusiasmo del padre scomparso, mettendo al centro il rapporto con lui e non le tragiche circostanze della sua morte: «Ora sei il nostro mito. Ci hai insegnato che bisogna sempre uscire dalla confort zone. Tocca a tutti noi dimostrarti che lo abbiamo imparato».

Se è Diletta a prendere solennemente gli impegni per il futuro, è Alessandra, la sorella di Alberto, che si deve occupare della gestione dell’azienda oggi. È lei che i dipendenti in maglietta bianca con il logo aziendale circondano sul sagrato, alla fine della cerimonia, quasi a farle da scudo, a proteggerla. Donna di grande temperamento è lei a salutare e ringraziare centinaia di persone mentre la moglie e i tre figli di Alberto Balocco fendono la folla in silenzio per raggiungere il carro funebre. «E stata una morte improvvisa, ci ha lasciato tutti sconvolti. Ma bisogna saper reagire. Avete visto oggi che c’è già una nuova generazione pronta a raccogliere l’eredità morale di Alberto, proprio come lui ed io avevamo fatto con nostro padre Aldo». In poche e precise parole Alessandra traccia una linea di continuità chiara, ordinata, com’è nella tradizione degli imprenditori cuneesi. È, naturalmente, un’eredità di tipo morale, ma è su quella che potrà basarsi, in futuro, anche la scelta della successione. La linea di continuità ha da ieri i suoi capisaldi.

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Letta, missione al Nord in cerca di voti leghisti: qui per convincere i delusi dall’alt a Draghi

martedì, Agosto 30th, 2022

di Maria Teresa Meli

Il leader democratico apre la sua campagna a Vicenza. La concorrenza dei centristi: atteso anche Renzi

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ROMA- Enrico Letta va alla conquista del Nord. Il segretario del Partito democratico è partito ieri per un giro elettorale del Settentrione: prima tappa il Veneto, poi Milano. L’obiettivo: intercettare i consensi in fuoriuscita dalla Lega. Il Carroccio, infatti, stando ai sondaggi riservati che sono arrivati al Nazareno sarebbe in affanno nel Nordest. Il mondo produttivo è rimasto spiazzato dalla decisione di Matteo Salvini di far cadere Mario Draghi: è una scelta che non ha condiviso né apprezzato e il Pd adesso spera di far convergere su di sé una parte dei voti dei leghisti moderati.

È una scommessa, certo, ma Letta intende giocarla anche per evitare che quel malcontento si traduca in consensi per il Terzo polo. Già, perché sulla crisi del Carroccio stanno puntando anche Carlo Calenda, che non a caso ha cominciato la sua campagna proprio in Veneto, e Matteo Renzi, che sarà in quella regione negli stessi giorni del segretario pd. «È una sfida — spiega il leader dem — che possiamo giocare a testa alta. Nessuno ha ancora capito come e perché Salvini abba deciso di rincorrere Conte nella follia di far cadere il governo Draghi proprio nel pieno di una guerra, con un’economia in evidente ripartenza nonostante lo scenario internazionale».

A Milano e a Torino, altra città su cui il Partito democratico punta molto, i dem tenteranno invece di intercettare i voti in fuoriuscita da Forza Italia, che, a detta dei dirigenti pd, «avrà una vera e propria emorragia di consensi». Anche lì i competitor sono Renzi e Calenda che mirano al disagio degli elettori di FI nei confronti della leadership di Giorgia Meloni e che hanno ex «azzurri» nelle liste dei candidati.

Per vincere la sua «sfida» e conquistare i voti dei delusi del centrodestra Letta agita lo spauracchio del 2011: «Tutti ricordano il baratro di quell’anno, con il governo Berlusconi, di cui Tremonti e Meloni erano ministri, costretto a dimettersi perché il Paese era sull’orlo della bancarotta. Dieci anni dopo l’Italia si è rialzata e risanata, ma ecco che loro si ripresentano nella stessa formazione pronti per una nuova bancarotta». «La preoccupazione — insiste il segretario del Pd — c’è tutta ed è legittima. I protagonisti sono gli stessi di allora con dieci anni in più e nessuna lezione imparata dagli errori fatti».

La concorrenza del Terzo polo al Nord si fa però sentire. Per questa ragione Letta insiste sul voto utile: «Più di un terzo dei collegi si gioca sugli uninominali. Tradotto, è eletto solo chi arriva primo. E per arrivare primi in un collegio bisogna prender almeno il 30-40 per cento dei voti. E può essere primo o il nostro candidato o quello della destra, quindi chi sceglie altre liste avvantaggia oggettivamente Giorgia Meloni. È bene chiarirlo una volta per tutte».

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Scontro sui migranti, la destra resta divisa

martedì, Agosto 30th, 2022

FRANCESCO OLIVO

Si abbracciano per la foto panoramica, ma la pace sbandierata è soltanto un tregua. Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono incrociati a Messina e hanno suggellato l’evento sullo Stretto con uno scatto dove compaiono sorridenti. Le distanze però restano e non sono solo sfumature. Ieri, ultimo di una lista non breve, è stato il turno dell’immigrazione, «blocco navale», insiste Meloni, «non serve, ci saranno i decreti sicurezza», ribatte Salvini. Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, è ancora più netto: «Il blocco navale è difficilmente realizzabile».

Ieri in Sicilia le agende coincidevano, due appuntamenti elettorali a pochi chilometri di distanza alla stessa ora. Una coincidenza che forse non lo era, (Salvini ha aggiunto dopo la tappa di Messina) ma che «non ci ha dato alcun fastidio», ripetono da Fratelli d’Italia. Con la regia del siciliano Ignazio La Russa, il caffè previsto tra i due leader è diventato un pranzo. Al tavolo del circolo del tennis di Messina il clima era disteso, raccontano i testimoni, Meloni e Salvini seduti uno accanto all’altro hanno brindato con un vino rosso. Davanti a piatti di pesce parlano della crisi energetica, ma anche di cose più pratiche: coordinare le agende, un modo per dire, mai più fare comizi diversi nello stesso posto. Alla fine della campagna, poi, i leader della coalizione potrebbero trovarsi insieme su un palco, per un evento finale che ancora non ha una sede, si parla di Roma, Milano o Napoli. Concluso il pranzo ognuno ha preso la sua strada, Salvini a Scicli e Meloni a Catania. La leader di FdI è intervenuta nel dibattito sull’energia: «Bisogna abbattere gli oneri sull’aumento delle bollette rispetto all’anno precedente, Iva e accise. Siamo disposti a parlare di qualsiasi soluzione che possa risolvere il problema con le altre forze politiche», ha detto al Tg1.

Siamo in Sicilia, la terra dove si sono scatenati gli scontri più duri tra alleati, risolti con la rinuncia alla candidatura del governatore Nello Musumeci, sostenuto da Fratelli d’Italia e poi rimpiazzato da Renato Schifani. «Il centrodestra è unito grazie a FdI», dice Meloni. L’ex presidente del Senato è sul palco a Catania insieme a Musumeci, il quale gli dice apertamente: «Stai attento al fuoco amico». Ecco l’aria che tira.

La Sicilia è anche approdo di sbarchi, e su questo tema le ricette sono diverse. Per Meloni l’unico modo per risolvere la questione dell’arrivo dei migranti è il blocco navale. La proposta ribadita ormai più volte, «non è per forza un atto di guerra», come dicono i critici, ma è «l’unica proposta seria che si può fare, una missione europea in accordo con le autorità libiche, per aprire in Africa gli hotspot, valutare chi ha diritto di essere rifugiato, mandare indietro gli altri». «Non occorrono i blocchi, basta riapplicare i decreti sicurezza – è la risposta di Salvini –. Al primo Cdm si reintroducono i due decreti sicurezza che hanno funzionato per anni». Quel Consiglio dei ministri Salvini ha l’intenzione di presiederlo, «se gli italiani sceglieranno la Lega». E anche Tajani ricorda che «Forza Italia ha «tante persone», adatte a ricoprire quel ruolo.

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Rapoport, l’ombra di Putin dietro allo strano suicidio

martedì, Agosto 30th, 2022

Jacopo Iacoboni

I misteri che si addensano attorno all’aggressione di Putin all’Ucraina, e alle operazioni dei servizi segreti russi in Occidente, cominciano a essere tanti. Un attivismo feroce russo si registra contro i paesi baltici, come sembrerebbero indicare le due storie che vi raccontiamo. La prima parte dagli Stati Uniti. Benché inizialmente la polizia americana avesse affermato di non sospettare che dietro la caduta di Dan Rapoport da un attico di un condominio di lusso di Washington, D.C., la notte del 14 agosto, ci fossero elementi di particolare stranezza, quella morte appare invece adesso assai sospetta a diversi servizi occidentali.

Rapoport, imprenditore lettone-americano, era nel suo paese d’origine uno dei più noti critici di Putin. Aveva lavorato in Russia con un fondo d’investimento nella tumultuosa stagione di speranze dei primi Anni novanta, per poi finire nel libro nero putiniano. Come il suo amico Bill Browder, fondatore del fondo Hermitage, e poi uno dei più impegnati attivisti anti-Putin, e autore della campagna per il Magnitsky Act negli Stati Uniti e in Europa. Browder non esita a dare questa lettura: «Penso che le circostanze della sua morte siano estremamente sospette. Ogni volta che qualcuno che ha una visione negativa del regime di Putin muore in modo sospetto, si dovrebbe ipotizzare un gioco scorretto, non escluderlo». Rapoport sosteneva la battaglia di Alexey Navalny. Aveva contatti importanti con l’élite americana, tra l’altro la sua famiglia aveva venduto una mansion di 5,5 milioni di dollari nel 2016, che è poi diventata la casa di Ivanka Trump e Jared Kushner.

Alyona Rapoport, la moglie, non crede minimamente al suicidio: «Faceva progetti e non pensava certo di uccidersi». Persino le modalità con cui la storia è emersa aumentano i sospetti che ci sia una mano dei servizi russi: sul canale Telegram dell’ex direttore di Russian Tattler, già in passato noto per aver diffuso notizie di fonte russa. Come faceva a sapere qualcosa che nessuna polizia aveva ancora divulgato?

Tutto questo avviene mentre l’Fsb dichiara di aver trovato un presunto complice di Natalya Vovk nell’attentato a Darya Dugina: sarebbe il cittadino ucraino Bohdan Petrovych Tsyhanenko. Ma siccome ogni informazione del Fsb è essa stessa una operazione di disinformation, quello che è utile qui è capire dove Mosca voglia puntare il dito: oltre all’Ucraina, l’Estonia. Secondo i servizi di Mosca, Tsyhanebko sarebbe entrato in territorio russo attraverso l’Estonia il 30 luglio 2022, e sarebbe ripartito dalla Russia il giorno prima che l’auto di Dugina saltasse in aria, fornendo «a Vovk targhe e documenti falsi rilasciati a una cittadina kazaka, Yulia Zaiko, e assemblando la bomba insieme a Vovk in un garage preso in affitto nel settore sud-ovest di Mosca».

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Noi e le alleanze: il valore della linea atlantica

martedì, Agosto 30th, 2022

di Angelo Panebianco

Come ha ribadito Mario Draghi al meeting di Rimini, la nostra partecipazione coerente, senza riserve mentali, all’alleanza atlantica, corrisponde sia ai nostri interessi sia ai valori di una maggioranza di italiani che fino ad aggi ha sempre rifiutato le alternative alla democrazia liberale: intendendo per tale quel governo misto che combina la protezione (imperfetta quanto si vuole) dei diritti individuali e gli istituti della rappresentanza.

L’atlantismo, dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stato garanzia di pace per i Paesi occidentali e di stabilità democratica. Ha costituito la cornice politico- militare entro la quale si è potuta sviluppare l’integrazione europea e gli abitanti della parte occidentale del Vecchio continente sono stati in grado di lavorare per creare le condizioni del benessere collettivo in Europa. Ma l’atlantismo è una creatura fragile. Esposta a rischi di implosione. Le minacce vengono dall’esterno, dalle potenze autoritarie, e dall’interno, da coloro che in Occidente detestano il modo di vita occidentale, l’economia di mercato, la democrazia. Sul piano esterno l’atlantismo è minacciato dal declino relativo della potenza degli Stati Uniti, dalla ascesa della Cina, dall’imperialismo russo, dall’accresciuto spazio di manovra di medie potenze autoritarie (come Turchia e Iran), insomma da ciò che per molti è l’inevitabile avvento di un mondo multipolare. Con il probabile accrescimento di disordine e di caos che il multipolarismo porta con sé.

Ha ragione Vittorio Emanuele Parsi (sula Rivista di Politica) quando osserva che se alla fine la Russia — complice anche l’indebolimento dell’appoggio europeo agli ucraini — dovesse risultare vincitrice in Ucraina, la Nato probabilmente non sopravviverebbe a lungo alla sconfitta. E la sua fine coinciderebbe con la fine dell’atlantismo.

Ci sono poi le pressioni interne. Chi in Europa è spaventato di fronte alla perdurante presa di Trump sul partito repubblicano, teme gli effetti che la corrosione della democrazia americana avrebbe per le democrazie europee. Anche se, va detto, gli Stati Uniti dispongono comunque di anticorpi sufficientemente forti per resistere, o così si spera, a potenziali involuzioni.

Gli avversari occidentali dell’atlantismo sono di due tipi. Quello più diffuso è anche il più rozzo: sono coloro che esibiscono anti-americanismo e avversione per la democrazia liberale (solo una pseudo-democrazia, dal loro punto di vista). C’è però anche una forma più sottile di anti-atlantismo. Si presenta, apparentemente, come politicamente neutrale, veste i panni del realismo politico e dell’obbiettività scientifica. È la posizione di coloro per i quali stiamo assistendo a uno scontro di potenza fra imperi e l’atlantismo è solo la longa manus dell’impero americano. Costoro non dicono di preferire Russia o Cina. Ma dicono in sostanza che gli imperi pari sono, e a competere sono semplicemente opposti progetti imperiali al servizio degli interessi di ciascuno di essi. Hanno torto quando vedono in azione opposti progetti imperiali? No, non hanno torto. Ma dicono solo una mezza verità. E, detta così, una mezza verità è l’equivalente di una bugia. Perché gli imperi — anche ammesso che si possa definire «impero» tout court l’egemonia internazionale statunitense — pari non sono affatto. Fatte le dovute proporzioni e tenuto conto della differenza fra le situazioni storiche, c’è fra l’America e il suo operare nel mondo da un lato e la Russia e la Cina dall’altro, una distanza equivalente a quella che, nella prima metà del Settecento, Montesquieu riscontrava fra l’impero creato dall’Inghilterra (terra di libertà, secondo il filosofo francese) e l’impero dispotico russo dei suoi tempi.

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Acciaio, ceramica, carta: ecco le imprese che decidono di non riaprire

martedì, Agosto 30th, 2022

di Federico Fubini

A 48 anni Ilenia Gatto, della Cgil di Modena, si è regalata una crociera con il marito per i trent’anni di matrimonio. Gli arcipelaghi greci, bellissimi. Solo elemento che si è insinuato a turbare la vacanza, il telefono della sindacalista. La settimana scorsa ha iniziato a riempirsi di messaggi: a ferie ancora da finire, in una delle province più ricche d’Italia tredici aziende stavano già chiedendo di avviare la cassa integrazione. Per loro, produrre con questi costi del gas serve solo a perdere soldi. Meglio fermarsi.E non è stato nulla rispetto al primo giorno di lavoro, per Ilenia Gatto. In otto ore altre sette richieste di attivare cassa integrazione per tutti gli addetti, sempre con la stessa motivazione: scarsità e prezzi alle stelle della sola materia prima che permette di cuocere la ceramica a 1.200 gradi. Il risultato è che siamo ancora in agosto e i nuovi cassaintegrati nella provincia a più bassa disoccupazione nel Paese sono già quasi mille. «Ora le aziende risparmieranno — dice la sindacalista —. Ma gli operai si troveranno il 20% di reddito in meno e bollette di casa moltiplicate di varie volte. Sarà un problema sociale serio». Anche perché tutti nel distretto hanno capito che almeno per tutto settembre le chiusure produttive si allargheranno a macchia d’olio, giorno per giorno, non appena gli imprenditori avranno fatto i conti sulle bollette.


MoMa Ceramiche

Renzo Vacondio, azionista, vicepresidente e amministratore delegato di MoMa Ceramiche — oltre cento milioni di fatturato e 350 dipendenti fra Sassuolo, Finale Emilia e Fiorano — ha deciso che ripartire dopo le vacanze semplicemente non vale la pena. Non importa che sia pieno di ordini da tutto il mondo come non capitava da tempo. Per fare un metro quadro di piastrelle occorrono tre metri cubi di gas, che prima costavano un euro ma ora nove. Quando nel calcolo si mette il trasporto, già solo l’energia assorbe dodici euro dei costi di un metro di pavimento che non si vende per più di sedici euro. Impossibile alzare i prezzi di listino ancora di più, quando dall’India le piastrelle arrivano a meno di un terzo. «Se a marzo il gas continuerà a costare come adesso, si farà fatica ad andare avanti — dice Vacondio a denti stretti —. Può darsi ci convenga trasformarci in trader che comprano dai Paesi a basso costo e rivendono. Sarebbe drammatico». Vacondio ha già incontrato i sindacati e l’annuncio della cassa integrazione è andato liscio, in apparenza. Nel profondo però no. «Vede, io vissuto il terremoto del 2012 — fa l’imprenditore —. Lo stabilimento di Finale Emilia crollò, ma allora fu più semplice emotivamente: sapevo cosa fare per ripartire, oggi invece l’incertezza è totale». Nel modenese le aziende che osano venire allo scoperto con la scelta di fermarsi sono più numerose che nel resto d’Italia. Ma anche qui l’idea di non ripartire dopo le vacanze è vissuta da alcuni come un’onta. Una ferita all’onore industriale. «Non metta il nome della mia azienda, stia sul generico», si accalora un imprenditore che nel luglio dell’anno scorso ha pagato gas e elettricità 350 mila euro e in questo agosto avrebbe avuto una bolletta energetica da quattro milioni e mezzo, se avesse tenuto aperto. I suoi dipendenti ora sono in ferie forzate e presto saranno in cassa integrazione anche loro. «Venerdì ho l’incontro con i delegati sindacali ma non faccia nomi, per carità. Non posso spaventare oltre le banche e i fornitori».

La siderurgia

L’idea di non ripartire dopo le ferie è vissuta (per ora) come uno sporco segreto da occultare soprattutto nella siderurgia. Già tre o quattro aziende hanno deciso di tenere giù le serrande, ma ancora non escono allo scoperto. Lo fa invece Paola Artioli, azionista unica e amministratrice delegata della bresciana Aso Siderurgica. Governa 230 dipendenti, fattura circa 130 milioni e da mesi si destreggia attraverso i picchi del gas. «Lavoriamo a stop and go» dice l’imprenditrice, che ha tenuto i forni accesi non più della metà del tempo e per l’altra metà ha attinto alla cassa integrazione. Cerca sempre di compattare la produzione di notte, quando i costi orari dell’energia scendono. «In base a commesse, tariffe e quotazioni del gas cerchiamo di incastrare tutto nel minore tempo di lavoro possibile, domeniche incluse — dice lei —. Stiamo facendo fatica, ma noi italiani siamo bravi: veniamo da una selezione darwiniana, l’imprenditorialità ce l’hanno passata i nostri padri nel sangue». Pochi invece hanno ereditato i mezzi per far fronte alla nuova ondata di richieste degli intermediari del gas: fidejussioni astronomiche o colossali garanzie tangibili per accedere ai contratti di fornitura dei prossimi mesi. «Pochi possono permetterselo — dice Antonio Gozzi, presidente di Duferco e di Federacciai —. Forse è il momento di pensare a un sistema di garanzie pubbliche perché le aziende possano lavorare».

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Tetto al prezzo del gas, la Ue accelera: prime aperture della Germania

martedì, Agosto 30th, 2022

di Francesca Basso e Federico Fubini

Italia chiede da oltre sei mesi un tetto al prezzo del gas e da quasi un anno la modifica del mercato elettrico. Ora qualcosa si muove. L’annuncio arriva da Bled, dove la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, intervenendo al Forum strategico in Slovenia, ha detto che «la Commissione sta lavorando a un intervento di emergenza e a una riforma strutturale del mercato elettrico». Dietro alla svolta di Bruxelles ci sarebbe un’iniziale apertura della Germania, che si è sempre opposta con l’Olanda al gas price cape alla richiesta di modifica del mercato elettrico, per sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del metano da cui dipende attualmente.

Il 7 settembre i rappresentanti degli Stati membri parteciperanno a un seminario nel quale la Commissione presenterà i modelli di price cap — italiano, greco e spagnolo-portoghese — e due giorni dopo, il 9 settembre i ministri Ue dell’Energia si incontreranno a Bruxelles per un consiglio straordinario convocato dalla presidenza ceca di turno dell’Unione: «Non permetteremo a Putin di danneggiare i nostri cittadini e le nostre imprese, motivo per cui dobbiamo aggiustare il mercato dell’energia. La soluzione europea è la migliore che abbiamo», ha detto il ministro dell’Industria ceco Josef Síkela, annunciando la convocazione della riunione su Twitter.


Il discorso sullo Stato dell’Unione

La Commissione Ue avrebbe preferito che il Consiglio si tenesse il 15 settembre, il giorno successivo al discorso sullo Stato dell’Unione che la presidente von der Leyen pronuncerà a Strasburgo alla plenaria del Parlamento europeo, per consentire di presentare la proposta Ue prima dell’incontro tra i ministri dell’Energia. Ma serviva un segnale immediato. È probabile però che la formalizzazione della proposta arrivi comunque dopo il consiglio Energia. È chiaro che «abbiamo bisogno di un nuovo modello di mercato per l’elettricità — ha detto von der Leyen — che funzioni davvero e ci riporti in equilibrio». A imprimere un’accelerazione «i prezzi alle stelle dell’elettricità» che «stanno ora esponendo, per ragioni diverse, i limiti del nostro attuale modello di mercato elettrico. È stato sviluppato in circostanze completamente diverse — ha ricordato la presidente — e per scopi completamente diversi. Non è più adatto allo scopo». La crisi

Il cambio della Germania

I costi non più sostenibili per famiglie e imprese stanno spingendo anche la Germania, come spiegano fonti Ue, a rivedere le proprie posizioni così come l’Olanda, la cui Borsa del gas sta traendo grandi benefici dall’impennata dei prezzi del gas. Restano tuttavia per Berlino dei nodi da sciogliere, che avrebbe già esposto alle altre cancellerie. È necessario chiarire cosa accadrà se non dovesse arrivare abbastanza gas da Mosca, dopo l’imposizione di un tetto al prezzo del gas importato, e come prevenire la speculazione dei mercati. È chiaro che la nuova misura, per funzionare, dovrebbe andre di pari passo con un razionamento. Ma al momento il taglio al consumo di gas, deciso nel consiglio Energia straordinario del 26 luglio scorso, è solo volontario. È attesta per il 28 settembre una comunicazione della Commissione in cui Bruxelles potrebbe indicare i prossimi passi per la solidarietà energetica Ue da lasciar decidere ai capi di Stato e di governo nella riunione di fine ottobre. I punti da chiarire per la Germania sono anche altri, osservano fonti Ue: è necessario garantire che le aziende dell’energia abbiano sufficiente liquidità attraverso il credito e lavorare a una riforma del mercato elettrico che preveda di scollegare il prezzo dell’elettricità da quello del gas, su cui è appunto al lavoro la Commissione. È ormai chiaro anche ai Paesi più scettici che il mercato elettrico ha smesso di funzionare correttamente e dunque è ora di affrontare le cause di fondo oltre ai sintomi rappresentati dai prezzi energetici alle stelle. Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo e Olanda nel dicembre scorso si erano opposte alle richieste di Italia, Francia, Spagna, Romania e Grecia di una riforma del mercato elettrico e avevano detto di essere disponibili a considerare variazioni, ma solo a patto di non sconvolgere l’assetto esistente.

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