E adesso, improvvisamente, i magistrati si scoprono fan della libertà di informazione. Si tratta degli stessi magistrati che – con poche, lodevoli eccezioni – fino a ieri amavano così tanto i diritti della stampa da querelare ad ogni piè sospinto chi osasse anche timidamente criticarli. E che oggi invece in convegni e interviste si preoccupano delle esigenze dell’informazione messe a rischio dal decreto legislativo che l’8 novembre scorso ha cercato di riportare un po’ di civiltà nei rapporti tra giustizia e informazione. Un decreto cui l’Italia era obbligata da una direttiva europea, ma che secondo le toghe è andato ben oltre il mandato di Bruxelles. In realtà il decreto dice poche e in fondo banali cose: che le notizie degli arresti e di quant’altro le può dare solo il capo della Procura, e che non può darle in corridoio o chiacchierando con questo o quel cronista, ma con una conferenza stampa o con un comunicato; che può farlo solo se la notizia ha rilievo pubblico; e che dando la notizia si dovrà rispettare il criterio costituzionale della presunzione di innocenza, quella buffa cosa per cui un malcapitato ha diritto di non essere considerato colpevole finché non lo si dimostra: in un processo, e non in un mandato di cattura o in un talk show. Sono misure così ovvie da rendere fondato il timore che cambierà poco: chi ama spifferare lo scoop al reporter contiguo continuerà a farlo, perché in 75 anni di repubblica non un solo magistrato è stato condannato per fuga di notizie; e il tributo alla presunzione di innocenza diventerà un vezzo formale, un preambolo di prammatica alle conferenze stampa; esaurito questo fastidio, per la serie «Bruto è un uomo d’onore», si tornerà a presentare come prove quelle che nessun giudice ha ancora ritenuto tali, e a offrire in pasto all’opinione pubblica semplici indagati. Il decreto appartiene insomma a quella cerchia di norme nobili e inutili su cui in genere nessuno storce il naso.
Credibili, capaci di riscuotere fiducia, senza ombre e sospetti.
Così il capo dello Stato vorrebbe i giudici. E pronti ad affrontare le
proprie responsabilità. Ma chi sbaglia paga? I magistrati che commettono
reati affrontano i tre gradi di giudizio, come tutti i cittadini. Ma
nel frattempo è il
Consiglio Superiore della Magistratura a decidere se trasferirli,
sospenderli, radiarli, o lasciarli al loro posto fino a sentenza
definitiva. Ed è sempre il Csm a decidere se, e come sanzionare i comportamenti che non onorano la toga. Vediamo come funziona il sistema.
La sospensione da funzioni e stipendio è obbligatoria solo in caso di arresto.
È facoltativa, invece, per chi è sotto procedimento penale. Il ministro
o il Procuratore Generale la devono chiedere, ma non sempre lo fanno, e
il Csm la può comunque revocare. Così c’è chi, anche con accuse gravi
pendenti, continua ad esercitare. Come Maurizio Musco, pm di Siracusa, accusato di favorire nelle indagini l’amico avvocato sbroglia-faccende Piero Amara e i suoi amici. Il Guardasigilli Paola Severino ne aveva chiesto e ottenuto «con urgenza» il trasferimento cautelare a Palermo già a fine 2011.
Ma nel 2014 il gup lo assolve, la procura fa ricorso e il Csm lo
rimanda a Siracusa, dove 8 magistrati su 11 denunciano il «rischio di
inquinamento dell’azione della procura». Musco viene ritrasferito, a
Sassari. Intanto fioccano le condanne in Appello, in Tribunale a
Messina, alla Corte dei conti. Il Csm lo radia solo nel 2019. La
Cassazione conferma nel 2020. In quegli otto anni Musco ha continuato a processare gli altri. O
come Ferdinando Esposito, accusato di pressioni improprie fatte tra il
2012 e il 2014 per avere un attico a due passi dal Duomo di Milano a
canone stracciato. Per lui, figlio di Antonio Esposito, che condannò Silvio Berlusconi, ci fu solo il trasferimento per abuso di potere.
Chi avrebbe potuto chiederne la sospensione da funzioni e stipendio era
la procura generale di Cassazione, a capo della quale, fino al 2012
c’era lo zio Vitaliano. Non lo fece. Ferdinando Esposito ha esercitato fino alla radiazione, avvenuta tre mesi fa.
Il ruolo di quell’ufficio è cruciale. Se una pratica arriva istruita
male il Csm non può che archiviare. Per questo dovrebbero esserci
magistrati senza ombre. Ecco perché ha fatto scalpore che il
pg Mario Fresa dopo aver sferrato, durante il lockdown, un pugno alla
moglie causandole un «vistoso ematoma sull’arcata sopracciliare» non sia stato trasferito dal Csm lo scorso 19 maggio (9 voti pro, 8 contro, 8 astenuti). Lei ritira la querela e ritratta.
Continua la pioggia di autosospensioni di consiglieri del Csm coinvolti nella bufera seguita all’inchiesta di Perugia che vede indagato per corruzione l’ex presidente Anm, Luca Palamara.
Gli ultimi due nomi ad aggiungersi alla lista sono quelli del
presidente della Commissione Direttivi Gianlugi Morlini (Unicost)e dei
consiglieri Paolo Criscuoli, Corrado Cartoni e Antonio Lepre. Il
vicepresidente del Csm David Ermini: “Serve riscatto o saremo perduti”.