Archive for the ‘Sanità’ Category

La grande fuga dagli ospedali: 10mila camici bianchi pronti a lasciare

lunedì, Giugno 19th, 2023

Paolo Russo

Nel 2020, anno primo della pandemia, erano un fenomeno irrilevante. Poi nel 2021 se ne sono contati duemila, saliti a 2.870 l’anno successivo. Ma ora si rischia l’emorragia, una fuga dall’Egitto di dimensioni bibliche. Perché stanchi di turni massacranti, demoralizzati dall’assenza di prospettive di carriera, visto che con il taglio di 30mila posti letto in dieci anni sono sfumati anche migliaia di posti da Primario, arrabbiati per le buste paga più basse d’Europa, sono 5mila i medici ospedalieri che negli ultimi sei mesi hanno chiesto al loro sindacato più rappresentativo, l’Anaao, informazioni per fare armi e bagagli dicendo addio alla sanità pubblica. Una parte per andarsene all’estero, altri per lavorare privatamente, un’altra fetta per ritirarsi anticipatamente in pensione. Come se non bastasse altrettanti hanno alzato il telefono per farsi fare dallo stesso sindacato un po’ di conti su quanto perderebbero non lavorando più in esclusiva per l’Ssn, ma acquisendo piena libertà di lavorare privatamente “a studio”. In tutto 10mila camici bianchi pronti a lasciare del tutto il lavoro in corsia o a ridurre le presenze.

A riferirci i numeri di questo malessere montante è Pierino Di Silverio, segretario nazionale dell’Anaao. «Dalle chiamate che riceviamo in continuazione abbiamo la chiara percezione che meno si sta in ospedale e meglio ci si sente. E chi può se ne va».

Il 15 giugno i medici ospedalieri hanno manifestato un po’ in tutta Italia contro le condizioni precarie di lavoro e le difficoltà nell’erogare livelli accettabili di assistenza, come dimostrano liste d’attesa e caos dei pronto soccorso. «La Sanità pubblica è allo stremo – prosegue Di Silverio – da questo momento o si agisce in fretta o noi siamo pronti a tutto pur di impedire la disgregazione del servizio sanitario nazionale. Se arriveremo allo sciopero non sarà di un giorno, così come di sicuro non sarà l’unico strumento estremo che useremo, non escluse le dimissioni di massa». Alle quali in tanti stanno già pensando senza aspettare le indicazioni sindacali. Tanto più se la trattativa per il rinnovo di un contratto 2019-21 già scaduto non prenderà un’altra piega rispetto a quella che attualmente promette un aumento medio del 4%, che è la metà del salario già corroso dall’inflazione.

I camici bianchi però non rivendicano soltanto soldi ma condizioni migliori di lavoro, visto che ognuno di loro accumula in media 300 ore di lavoro extra che non vengono né pagate e nemmeno recuperate. I sindacati di categoria chiedono poi che le aziende sanitarie e ospedaliere smettano di utilizzare i soldi dei cosiddetti “fondi di posizione” per la carriere e quelli “di risultato” per pagare gli straordinari. «Che in pratica ci vengono remunerati con i nostri stessi soldi», chiosa il segretario dell’Anaao. Che insieme alle altre sigle di categoria si prepara alla serrata a settembre se dal Governo non arriveranno risposte concrete alle loro richieste.

Intanto però c’è da capire se i reparti dei nostri ospedali questa estate chiuderanno per ferie, visto che tra carenze di organico e fuga dal servizio pubblico non sarà facile sostituire chi per contratto ha diritto ad almeno 15 giorni di vacanze da prendere quando si vuole. Ossia, come pressoché tutti chiedono, a luglio ed agosto. E le difficoltà maggiori si incontreranno proprio nella medicina di emergenza e urgenza, nelle sale operatorie dove scarseggiano gli anestesisti, nei reparti di infettivologia e, in generale, per tutte quelle specialità mediche dove si lavora quasi esclusivamente per il pubblico perché c’è poca richiesta di visite private. Che sia così lo mostrano i numeri dell’altra grande fuga: quella dei giovani dalle specializzazioni meno remunerative. Da un lato infatti è rimasto scoperto solo lo 0,4% dei posti nella dermatologia, gettonatissima nel privato. E altrettanto dicasi della chirurgia plastica, dove appena il 2,32% delle borse di studio non è stato assegnato. Dall’altro invece il 78,3% dei posti in virologia e microbiologia sono rimasti senza giovani aspiranti specialisti, che nonostante le virostar hanno preferito settori dove le visite a studio sono più richieste.

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Gli ospedali top e i peggiori: vi diciamo quali sono e perché. Ecco le pagelle mai rese note

giovedì, Maggio 25th, 2023

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Le aziende ospedaliere, come tutte le aziende, funzionano bene o male a seconda di come sono gestite. Con una differenza però: le prime gestiscono la salute e gli errori di gestione non sono ammessi. Le cronache ci raccontano di solito i casi eccezionali del tipo: «Molinette, salvata bambina di 5 anni con un trapianto di fegato collegato direttamente al cuore» (11 dicembre 2022); «Policlinico Gemelli, caso di rara complessità: nella stessa seduta, effettuato un bypass coronarico, asportato un tumore renale e rimosso un enorme trombo. Impegnate 3 equipe per 10 ore» (10 febbraio 2023); «Padova, trapiantato un cuore fermo da 20 minuti: prima volta» (15 maggio 2023). Un clamore meritato e rassicurante. Contemporaneamente ci sono gli episodi di malasanità che fanno altrettanto rumore e ci terrorizzano. La quotidianità con cui ci confrontiamo abitualmente da pazienti è fatta, però, soprattutto d’altro: Pronto soccorso, liste d’attesa, esami diagnostici che per essere precisi vanno eseguiti con macchinari sotto i 10 anni. Ed è qui che, tranne rare eccezioni, qualità delle cure e capacità dei manager sono strettamente legate. Vediamo cosa vuol dire.

Quando un ospedale funziona bene

Un’azienda ospedaliera funziona bene quando rispetta requisiti imprescindibili:
1) un Pronto soccorso dove i pazienti non se ne vanno perché non hanno ricevuto entro le 8 ore le cura e l’assistenza necessaria;
2) tempi di attesa che rispettano quanto indicato dalla legge (per esempio l’intervento chirurgico per la protesi d’anca entro 180 giorni e gli interventi per tumore alla mammella, al colon retto e al polmone entro 30 giorni);
3) tassi non elevati di ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza (come l’artrodesi), ricovero dei pazienti nel reparto giusto per il loro problema (per esempio meno ricoveri possibile di pazienti medici in reparti chirurgici), non fare passare troppi giorni dall’ingresso in ospedale per un intervento chirurgico all’intervento chirurgico stesso, capacità di attrarre pazienti da fuori Regione;
4) bilanci e conti in ordine;
5) numero adeguato di medici e infermieri per posto letto;
6) macchinari e apparecchiature non obsolete.

Le pagelle ai direttori generali

In base a questi indicatori, per la prima volta, è possibile dare una pagella su come sono guidati gli ospedali pubblici: l’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che fa capo al ministero della Salute, ha valutato le performance dei manager di 53 ospedali pubblici, di cui 30 universitari, divisi rispettivamente per chi ha più di 700 posti letto o meno di 700 posti letto. Lo ha fatto come previsto dalla legge di Bilancio del 2019 che le affida il compito di monitorare il raggiungimento degli obiettivi dei direttori generali: «L’Agenas – si legge all’art. 1, comma 513 – realizza (…) un sistema di analisi e monitoraggio delle performance delle aziende sanitarie che segnali, in via preventiva, attraverso un apposito meccanismo di allerta, eventuali e significativi scostamenti relativamente alle componenti economico-gestionale, organizzativa, finanziaria e contabile, clinico-assistenziale, di efficacia clinica e dei processi diagnostico-terapeutici, della qualità, della sicurezza e dell’esito delle cure, nonché dell’equità e della trasparenza dei processi». Esclusi gli Irccs non universitari, i mono-specialistici, le Asl e le aziende territoriali come le Aziende sociosanitarie territoriali (Asst) della Lombardia che dal 2015 hanno incorporato quasi tutti gli ospedali pubblici lombardi: la scelta di escluderli dell’Agenas è motivata dalla necessità di avere dati comparabili tra loro. I risultati che leggerete di seguito sono stati incrociati con i dati del «Piano nazionale esiti», lo strumento con cui Agenas testa annualmente la qualità delle cure, a conferma della corrispondenza tra capacità dei manager e risultati clinico-assistenziali.

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Apartheid oncologica, dai mutui alle assicurazioni anche da guariti il cancro può restare un incubo

mercoledì, Maggio 17th, 2023

PAOLO RUSSO

ROMA. «Avevo già avuto il cancro prima di questo. A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Lo riconobbero subito, era a uno stadio iniziale. Però ero in campagna elettorale, quella volta non potei dire che ero malata, gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore». Così, dopo aver squarciato con coraggio il velo sul male di oggi, per sua stessa ammissione incurabile, la scrittrice Michela Murgia racconta che il tumore può essere fonte di discriminazione.

Come quella subita da Laura. Sono passati vent’anni da quando le fu diagnosticato un tumore al seno, curato in cinque. «Faccio la ballerina da sempre e qualche tempo fa ho deciso di lasciare il mio lavoro in ufficio per aprire una scuola da ballo». Ma subito arrivano gli intoppi. «Prendo un appuntamento in banca dove però mi chiedono delle mie condizioni di salute passate e presenti e a quel punto l’impiegato mi anticipa che un mutuo a lungo termine non mi sarebbe stato concesso. È come se fossi tornata ai tempi della malattia ma a 15 anni dalla guarigione». Storie di ordinaria ingiustizia, una delle tante che subiscono il milione e passa di italiani che per la medicina sono a tutti gli effetti guariti dal cancro, tanto da avere un’aspettativa di vita uguale agli altri, ma che si vedono negare il proprio diritto all’oblio di una malattia che non c’è più. E questo non solo davanti alla richiesta di un mutuo, ma anche in un colloquio di lavoro o al momento di stipulare un’assicurazione, senza per questo vedersi presentare polizze da capogiro. Ingiustizie che si perpetuano persino di fronte a una richiesta di adozione, per realizzare il sogno di un figlio che a volte la malattia non consente di avere.

Proprio pochi giorni fa il premier spagnolo, Pedro Sanchez, ha annunciato che entro giugno il suo governo varerà una legge sul cosiddetto «oblio oncologico». Un provvedimento che abolisce l’obbligo di dichiarare di aver avuto un tumore al momento di stipulare un contratto o di avanzare una richiesta di adozione. Un diritto già sancito per legge in altri Paesi europei. In Francia già dal 2016 e dopo solo 5 anni di assenza di recidive, in Olanda, Belgio, Lussemburgo, Portogallo e Romania, prima del passo avanti spagnolo, banche e compagnie assicurative, così come i datori di lavoro, non possono infatti richiedere informazioni sulle patologie pregresse, quando è trascorso un lasso di tempo che varia dai 5 ai 10 anni dall’inizio delle cure. Leggi di civiltà che una risoluzione votata a febbraio del 2022 dall’Europarlamento raccomanda a tutti gli Stati membri di adottare.

Un’analoga raccomandazione la contiene anche il nostro Piano nazionale oncologico, approvato appena il mese scorso, mentre in Parlamento giacciono disegni di legge «bipartisan» dove è stabilito che «non possono essere richieste al consumatore informazioni sullo stato di salute relative a patologie oncologiche pregresse quando siano trascorsi 10 anni dal trattamento attivo in assenza di recidive o ricadute della malattia, ovvero 5 anni se la malattia è insorta prima del 21° anno di età». Un altro articolo va invece a modificare la legge «184» del 1983 sulle adozioni, inserendo gli stessi limiti temporali di 10 e 5 anni, passati i quali gli ex malati oncologici non possono più essere in alcun modo discriminati.

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Sanità da incubo, medici e infermieri in sala senza qualifiche: ecco la giungla dei gettonisti

lunedì, Maggio 15th, 2023

Paolo Russo

Medici e infermieri in affitto ma senza essere iscritti nemmeno all’Albo professionale, dottori spediti a fare cesarei senza avere mai visto una sala parto, sanitari di cooperative trasformati in stakanovisti del gettone al lavoro per 24 ore consecutive senza alcun turno di riposo. E poi medici ultrasettantenni con i capelli più bianchi dei loro camici e frodi in quantità, come quella di inviare meno personale di quello pattuito e pagato da Rsa e ospedali con le piante organiche sguarnite da anni di tagli alla sanità. Benvenuti nel mondo dei sanitari a gettone messo a nudo dall’indagine a tappeto dei carabinieri dei Nas, che hanno scoperto 165 posizioni irregolari che hanno portato alla segnalazione di 205 persone, di cui 83 all’autorità giudiziaria.

La giungla dei medici a gettone però non verrà disboscata più di tanto per almeno un altro anno.

Nonostante il ministro della Salute, Orazio Schillaci, mercoledì si sia affannato a difendere gli emendamenti approvati della sua maggioranza al decreto bollette, sostenendo non contenessero alcun allentamento della stretta sui gettonisti, un’attenta lettura dei testi mostra che non è così.

Se infatti fino ad ora il ricorso alle coop di medici in affitto era previsto soltanto nei pronto soccorso e reparti di emergenza e urgenza, ora per 12 mesi continuerà ad essere consentito anche negli altri reparti. Sempre con i paletti previsti dalla prima versione del decreto, ossia con una specializzazione attinente al ruolo che si deve andare a ricoprire, con il limite inderogabile dei 70 anni di età e sempre che siano riscontrate le necessità di urgenza e la mancanza di personale interno da utilizzare per ricoprire i vuoti in pianta organica. Ma uno degli emendamenti approvati prevede anche che la possibilità di assegnare incarichi ai gettonisti sia estesa «a tutte le strutture sanitarie e ospedaliere da riqualificare». Ossia più o meno tutte. Così si continuerà a pagare medici tre, anche quattro volte tanto quelli dipendenti, che lavorano in team e seguendo nel tempo i pazienti hanno il vantaggio di poter offrire una migliore assistenza, oltre che di costare molto meno. Controsensi di un sistema di governo della sanità ancora strutturato a silos.

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Dove permane l’obbligo delle mascherine: dagli ospedali alle Rsa, la nuova ordinanza

sabato, Aprile 29th, 2023

Nel giorno in cui il report settimanale certifica un ulteriore calo dell’incidenza dei nuovi contagi, scesi da 48 a 39 casi ogni 100mila abitanti, il ministero della Salute licenzia la nuova ordinanza con le linee guida sull’utilizzo degli strumenti di prevenzione del virus. Il documento, che resterà in vigore fino al 31 dicembre, conferma l’obbligo di indossare la mascherina per “lavoratori, utenti e visitatori delle strutture sanitarie all’interno dei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi, specialmente se ad alta intensità di cura”.

Negli ambulatori è confermata “la discrezionalità dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta”. L’obbligo viene meno per i bambini di età inferiore ai 6 anni, per le persone con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina stessa, nonché per le persone che devono comunicare con una persona con disabilità in modo da non poter fare uso del dispositivo. Altrettanto discrezionale è l’esecuzione del tampone per l’accesso ai Pronto soccorso, la cui decisione viene rimandata alle Direzioni Sanitarie e delle Autorità Regionali. “Ho firmato oggi l’ordinanza che limita l’obbligatorietà delle mascherine negli ospedali ai reparti a maggior intensità di cura e con i pazienti più fragili oltre alle Rsa – ha dichiarato il ministro della Salute, Orazio Schillaci -. Questo testimonia che finalmente stiamo uscendo da questa terribile pandemia che ha limitato le nostre vite negli ultimi tre anni e confido molto che il prossimo 20 maggio anche l’Oms dichiari la fine della pandemia – aggiunge -. Guardiamo con ottimismo al futuro, ma siamo pronti in caso di nuove emergenze a intervenire tempestivamente per continuare a salvaguardare la salute pubblica e i nostri cittadini. Ci avviamo verso l’estate e guardiamo al prossimo autunno con ottimismo, fiduciosi che l’Oms a breve dichiari la fine della pandemia”.

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Sanità: i soldi al Servizio nazionale e la verità che il governo nasconde

lunedì, Aprile 17th, 2023

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Se la «lista d’attesa» appartenesse a una corporazione, sarebbe certamente più corta. Ma qui si tratta di una lista senza rappresentanza, formata da milioni di cittadini dove ognuno subisce in solitudine il proprio disagio o si arrangia come può. Chi può. Eppure nessun governo ha mai dichiarato di voler tagliare la spesa sanitaria, al contrario sono sempre stati snocciolati miliardi di investimenti. Per capire se lo Stato ne tira fuori abbastanza gli esperti usano un indicatore: il rapporto tra i finanziamenti pubblici al servizio sanitario nazionale e il Pil. Se l’incidenza percentuale rispetto al valore di tutti i beni e servizi prodotti nel nostro Paese è bassa, vuole dire che lo Stato non investe a sufficienza per la salute dei propri cittadini. Con 114,4 miliardi messi nel 2019, l’Italia arriva alla pandemia con un livello di finanziamento rispetto al Pil del 6,4%, contro il 9,8% della Germania, il 9,3% della Francia e il 7,8% del Regno Unito (dati Ocse). Il 2020 è l’anno della spesa record: 120,5 miliardi, pari al 7,3% del Pil. La grande lezione del Covid è quella dell’impegno solenne: mai più risparmi e tagli sulla sanità. Cosa è successo dopo?

Costi Covid rimasti scoperti

Nel 2021 le Regioni spendono 8,3 miliardi in più per coprire i costi extra: ricoveri in ospedale di chi ha contratto il virus, tamponi, reclutamento di medici, infermieri, e vaccinazioni di massa. Lo Stato a oggi gliene ha rimborsati solo 4,45: vuol dire che le Regioni hanno accumulato un buco da 3,86 miliardi. Alla Lombardia è stato rimborsato un miliardo in meno di quello che ha speso; al Lazio 442,8 milioni; all’ Emilia-Romagna 436; al Piemonte 288; al Veneto 277; alla Toscana di 239; alla Puglia 205,5; alla Campania 216; all’Abruzzo 61,6; all’Umbria 59,4; alla Sardegna 50; alla Basilicata 13.

Caro energia non rimborsato

Nel 2022 le Regioni continuano a sostenere spese extra legate al Covid: i ricoveri, la sanificazione obbligatoria degli ambienti ospedalieri, le uscite per il personale aggiuntivo, oltre alle visite e gli esami da recuperare. Con la fine dello stato d’emergenza del 31 marzo, però, lo Stato di fatto non riconosce più i finanziamenti aggiuntivi. In più si sommano 1,4 miliardi di costi per l’impennata delle bollette di luce e gas. Con il decreto del 10 gennaio 2023 il governo Meloni mette 1,6 miliardi alla voce «maggiori costi delle fonti energetiche e per il perdurare della pandemia». I fondi vengono distribuiti in percentuale alla popolazione delle singole regioni. Risultato: solo in bollette l’Emilia-Romagna spende 188,2 milioni e ne prende 120,9; la Toscana 153 e ne prende 101; l’Umbria 31 e ne prende 23,8; la Basilicata 21, e gliene danno 14,7. E poi: l’Abruzzo va sotto di 19,3 milioni; la Puglia di 2,6; la Sardegna di 3,6; Liguria e Friuli di 2.

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Allarme sanità pubblica: ecco cosa sta succedendo

sabato, Aprile 1st, 2023

Paolo Russo

ROMA. Non si andrà come a Parigi sulle barricate per le pensioni, ma per ora sulla piazza virtuale della Rete, domani forse in quelle reali del Paese, gli italiani hanno iniziato a mobilitarsi a difesa di un altro pilastro del welfare: la sanità pubblica. Al momento sono oltre 103 mila le firme apposte alla petizione a difesa dell’Ssn lanciata il 10 marzo scorso sulla piattaforma Change.org, ma gli organizzatori, tra cui l’ex senatore Vasco Errani, puntano a superare l’asticella delle 150 mila. A dimostrazione che la partita del consenso si gioca sempre più sul terreno della difesa del diritto alla salute, messo in discussione dalle liste d’attesa e dalla conseguente e strisciante privatizzazione. A documentarne l’inesorabile ascesa è l’annuario statistico dell’Ssn appena pubblicato. Nel 2021 le strutture private accreditate sono salite a 995, erano la metà solo 10 anni fa e rappresentano ormai il 46,9% del totale. In un decennio aumentano da 5.587 a 8.778 anche gli ambulatori specialistici, mentre i presidi deputati all’assistenza residenziale da 4.884 salgono a 7.984, raggiungendo così l’84% del totale.

Senza risorse, sostengono i promotori della mobilitazione, le Regioni sono costrette a tagliare i servizi per evitare di andare in piano di rientro e così le liste di attesa si allungano creando sempre maggiori discriminazioni tra chi può pagare il privato e chi deve rinunciare alle cure. E con i conti di Asl e ospedali sempre più in rosso la situazione rischia di precipitare. In questi giorni il Mef sta facendo le pulci ai conti regionali: Campania, Lazio, Toscana e Umbria rischiano di essere commissariate, mentre Calabria e Molise lo sono già e sembrano destinate a restarci a lungo. Con tutto quel che ne consegue in termini di altri tagli, blocco delle assunzioni e aumenti delle imposte locali.

«Fino a quando i cittadini non scenderanno in piazza, è difficile che la politica rimetta al centro dell’agenda il Servizio sanitario nazionale», afferma Nino Cartabellotta, tra i sostenitori della petizione online e che in qualità di presidente della fondazione Gimbe ieri ha presentato un piano di salvataggio dell’Ssn (e del «diritto alla salute a rischio») in 14 punti. Secondo Gimbe occorre prima di tutto rendere disponibili i servizi sanitari tramite reti integrate di assistenza, superando la dicotomia ospedale-territorio e integrando assistenza sanitaria e sociale. Questo significa far prendere in carico i pazienti cronici dalle nuove strutture territoriali, case e ospedali di comunità, che devono però agire in collegamento con l’ospedale. Ma le nuove strutture rischiano di rimanere scatole vuote, perché non è stato ancora preso nessun provvedimento che vincoli a prestare la loro opera nelle case di comunità gli 82 mila tra medici e pediatri di famiglia, specialisti ambulatoriali convenzionati ed ex guardie mediche.

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Sanità, le Regioni sulle barricate: “Servono più di 5 miliardi oppure tornerà l’austerity”

venerdì, Marzo 24th, 2023

Paolo Russo

«Siamo arrabbiati, perché circa due settimane fa tutte le Regioni hanno consegnato ai ministri Orazio Schillaci e Giancarlo Giorgetti un documento, un grido d’allarme per ottenere un tavolo urgente di discussione, affinché nessuna Regione in Italia possa andare incontro a contrazioni di spesa». Raffaele Donini, da coordinatore degli assessori regionali alla sanità più che da emiliano, esprime tutto il suo malcontento per un tavolo che dovrebbe mettere più di una pezza sui malandatissimi conti regionali ma che il governo non ha ancora apparecchiato. Anche se, sotto traccia, come annuncia il titolare della Salute nell’intervista a La Stampa, si sta lavorando per reperire le risorse necessarie ad aumentare i posti letto negli ospedali, che ci vedono fanalino di coda in Europa rispetto alla popolazione, oltre che ad incentivare i medici in prima linea negli ospedali. Un po’ andando a lavorare nei residui attivi nei bilanci dei vari ministeri, un po’ potendo fare affidamento su una crescita che si prevede superiore alle attese, il ministro dell’Economia Giorgetti si sarebbe infatti convinto che per la sanità si può fare di più.

Ma stando al documento bipartisan votato all’unanimità sia dalle Regioni di centrodestra sia da quelle di centrosinistra di soldi ne servono tanti. Anche perché per alcune, come il Lazio, il rischio di tornare al commissariamento, con tanto di piani di rientro, si sta facendo sempre più concreto. E questo comporterebbe un’ulteriore contrazione dell’offerta dei servizi. Di certo non aiuterebbe a smaltire le liste di attesa che oggi discriminano chi non può permettersi di aggirarle rivolgendosi al privato.

La situazione dei loro conti le Regioni l’hanno messa nero si bianco due settimane fa. All’appello mancherebbero 5,2 miliardi, solo a contare le spese sostenute per il Covid fino al 2021 non coperte dallo Stato, che ammontano a 3,8 miliardi, più il miliardo e 400 milioni di caro energia, sempre per il 2021. Poi c’è da considerare l’inflazione, che per il 2023 è prevista correre al 7% e «i costi sostenuti sempre per il Covid nel 2022 non coperti a livello centrale, che solo qui da noi in Emilia-Romagna ammontano a 400 milioni», mette in chiaro sempre Donini. Infine il cosiddetto pay back. Lo sforamento di spesa per i dispositivi medici, cose che vanno dalle garze alle Tac e alle risonanze, che sarebbe a carico delle imprese, le quali però non vogliono pagare. Sono altri 2,2 miliardi per il periodo 2015-2018, più un altro miliardo e 800 milioni stimati per gli anni successivi. «Su questo abbiamo chiesto a Giorgetti e Schillaci che se, come si percepisce, il governo verrà incontro alle imprese produttrici mitigando l’impatto del pay back sui loro bilanci, questo sconto non finisca però per gravare su quelli regionali», puntualizza sempre il coordinatore degli assessori.

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Sanità, negli ospedali arriva il sorpasso del privato

venerdì, Marzo 10th, 2023

Paolo Russo

Dietro le liste di attesa che si allungano all’infinito ci sono senz’altro la carenza di medici e l’obsolescenza di macchinari come Tac e risonanze. Ma a costringere gli assistiti ad aprire il portafoglio per aggirarle o a rinunciare proprio alle cure c’è anche il fenomeno di Asl e ospedali pubblici che, in barba alle leggi, erogano più prestazioni in modalità «solvente» che in regime Ssn. Così le aziende sanitarie risanano i propri bilanci e il 42% dei medici che fa il doppio lavoro rimpinguano per bene lo stipendio, mentre le famiglie italiane sono arrivate a spendere oltre 1.700 euro l’anno per curarsi. Record europeo di spesa sanitaria privata.

A svelare l’altra faccia dello scandalo liste d’attesa sono due relazioni di oltre 150 pagine ciascuna sulla cosiddetta «intramoenia», l’attività privata che i medici esercitano appunto all’interno delle strutture pubbliche. Una dell’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, l’altra inviata al Parlamento dal ministero della Salute. Questo mentre il titolare del dicastero, Orazio Schillaci, afferma che «la doppia anima pubblica e privata della nostra sanità può costituire una chiave di volta per superare le disuguaglianze a livello territoriale». Ricordando che il Milleproroghe «permette alle Regioni di utilizzare lo 0,3% del fondo sanitario per avvalersi delle prestazioni in convenzione con strutture private».

Ma di privato se ne fa già tanto anche nel pubblico. Infatti dopo il calo legato al Covid del 2020, la spesa degli assistiti per l’«intramoenia» nel 2021 è salita da 816 milioni a un miliardo e 86 milioni, riportandosi così vicina ai livelli pre-pandemici. Ma a scandalizzare è il fatto che in ben 16 regioni su 21 ci sono strutture sanitarie pubbliche che erogano più interventi in forma privata che non in regime mutualistico. Con casi al limite dell’assurdo che spuntano dalle tabelle relegate tra gli allegati della relazione al Parlamento. All’ospedale Salvatore Paternò in Sicilia gli interventi al cristallino eseguiti privatamente sono qualcosa come 140 volte più numerosi di quelli fatti dal pubblico. Al Cardarelli di Napoli e al Policlinico di Parma le ecografie eseguite privatamente per ostetricia sono due volte tanto quelle eseguite in regime Ssn. Al Rummo, in Campania, le visite pneumologiche private sono il 250% di quelle fatte nel pubblico. Di test cardiovascolari da sforzo all’ospedale Moscati in Calabria privatamente se ne fanno il triplo che nel pubblico. E la quota dei solventi supera il 300% all’Arnas Garibaldi in Sicilia. Le elettromiografie eseguite in forma privata all’ospedale romano San Giovanni sono il doppio di quelle in regime Ssn, mentre 165% è la percentuale di privato per lo stesso esame alla Asl di Biella in Piemonte. All’ospedale umbro di Umbertide è sicuramente più facile ottenere pagando un intervento a orecchio, naso, bocca e gola, visto che la quota di privato è circa il 220% di quella assicurata gratuitamente grazie alle tasse che versiamo per il servizio sanitario nazionale. In una azienda lombarda, non meglio specificata nella relazione, di interventi di ernia inguinale e femorale privatamente se ne fanno il 750% in più che nel pubblico, mentre in un ospedale campano le operazioni alla mammella da solventi sono il 300% delle altre.

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Aviaria, il prof Richeldi spiazza Gruber: “Meno impreparati alla nuova pandemia”

venerdì, Marzo 3rd, 2023

Giada Oricchio

La Procura di Bergamo ha chiuso l’inchiesta sulla gestione della prima fase pandemica del Covid nella Bergamasca e ha indagato 19 persone fra cui l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il già ministro della Sanità Roberto Speranza, il governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore al Welfare, Giulio Gallera. I pm ipotizzano il reato di epidemia colposa perché “sapevano che il virus dilagava e non intervennero, si potevano evitare 4.000 morti” Fra i nomi, figurano anche il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli.

Da qui prende spunto la puntata del talk preserale di La7 “Otto e Mezzo”, giovedì 2 marzo. Il direttore del Reparto di Pneumologia dell’ospedale Gemelli di Roma, Luca Richeldi, ha difeso l’operato dei colleghi. L’iter giudiziario farà il suo corso, ma adesso la questione è un’altra: abbiamo imparato dagli errori? Siamo attrezzati per un’eventuale nuova pandemia? La conduttrice Lilli Gruber ha domandato: “Gli esperti ritengono che la prossima epidemia sarà l’aviaria e arriverà in tempi rapidi. Siamo pronti?”. Il prof Richeldi ha risposto: “Saremo meno impreparati rispetto a un problema delle dimensioni del Covid-19. Anche grazie ad alcune delle persone oggi indagate c’è stato un aggiornamento dei documenti, della preparazione e delle procedure che ci dovrebbero consentire di essere più pronti”.

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