Archive for the ‘Economia – Lavoro’ Category

Regioni a statuto speciale, ecco i privilegi: perché sono a spese di tutti noi

lunedì, Marzo 27th, 2023

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Si narra che il cancelliere tedesco abbia chiesto a Prodi: «Fammi avere la cittadinanza di Bolzano, così potrò passare una vecchiaia prosperosa». A dire il vero l’idea non dispiace a nessuno, anzi: il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata si ispira grossomodo proprio alle Regioni a statuto speciale. Se il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio 2023 avrà anche il via libera dal Parlamento, diventerà legge, come annunciato, entro l’inizio del 2024. Allora per cominciare vediamo perché in Italia abbiamo 5 Regioni a statuto speciale.

Cosa hanno in comune

L’origine risale all’art.116 della Costituzione del 1948. I commi 1 e 2 sanciscono che «Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale». Le ragioni della scelta hanno radici diverse: la forte spinta indipendentista in Sicilia; le rivendicazioni austriache in Trentino-Alto Adige; la prevalenza del dialetto francese in Valle d’Aosta; la complessità linguistica e l’influenza dell’allora regime comunista jugoslavo in Friuli-Venezia Giulia; la povertà secolare in Sardegna.

Invece il Ddl Calderoli si rifà al comma 3 nato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, che conferisce alle Regioni a statuto ordinario (Rso) la possibilità di vedersi attribuite «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» in 23 materie tra cui istruzione, salute, ambiente, internalizzazione delle imprese, tutela e sicurezza del lavoro e produzione di energia. La norma nasce su iniziativa del governo D’Alema alle prese con le rivendicazioni di autonomia della Lega Nord e diventa legge sotto il governo Berlusconi. In cosa consiste la similitudine fra le Regioni a statuo speciale e il Ddl Calderoli? Nel principio che ogni Regione possa negoziare con lo Stato i settori che intende gestire in proprio trattenendo i tributi equivalenti (qui art. 2 e 5). Entriamo allora nel vivo del meccanismo che regola le Regioni a statuto speciale con l’analisi di Massimo Bordignon, Federico Neri, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi per l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani della Cattolica (qui).

Quanto trattengono le Regioni a statuto speciale

Il punto sostanziale è quello di trattenere per sé la gran parte delle imposte: la Valle d’Aosta si tiene il 100% di Irpef, Ires (imposta per le società), Iva e accise sui carburanti; le Province autonome di Trento e Bolzano il 90% e l’80% di Iva; il Friuli-Venezia Giulia il 59% e il 30% delle accise; la Sicilia il 71% dell’Irpef, il 100% dell’Ires e il 36% di Iva; e la Sardegna il 70% su tutto e il 90% di Iva. Con questi soldi si pagano: sanità, assistenza sociale, trasporti e viabilità locali (che però si pagano in proprio anche Regioni come Lombardia, Toscana e Lazio), manutenzione del territorio, infrastrutture per l’attrazione turistica. La Valle d’Aosta e le due province del Trentino si finanziano anche l’istruzione, ovvero gli stipendi degli insegnanti.

Cosa paga lo Stato

Lo Stato paga tutto il resto: le spese per la giustizia (procure e tribunali), le forze dell’ordine, le infrastrutture di carattere nazionale (come la rete ferroviaria, i trafori, pezzi di autostrada, a partire da quella del Brennero), i servizi Inps, oltre alla macchina politica e amministrativa statale. Tutte spese che sono finanziate dalla fiscalità generale, alle quali queste regioni non partecipano, o lo fanno in piccola parte.

Costi a Roma, vantaggi alle Regioni

A conti fatti, come mostrano i dati dei Conti Pubblici Territoriali, lo Stato in media spende all’anno per ogni cittadino italiano che vive nelle Regioni a statuto ordinario 10.737 euro, tanto quanto spende per un cittadino valdostano (10.708), per un abitante del Friuli-Venezia Giulia 12.170, per un trentino 9.343, un altoatesino 9.222, un sardo 9.666, e per un siciliano 8.214.

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Banche e Borse a picco, tutti contro Lagarde: leader Ue infuriati con la Bce

sabato, Marzo 25th, 2023

Christine Lagarde finisce sotto accusa da parte di diversi leader presenti al Consiglio europeo. La numero uno della Bce e la sua politica monetaria, fatta di una grande rigidità nell’alzare i tassi di interesse per contrastare l’inflazione, è stata pesantemente critica da Italia, Spagna, Portogallo e Grecia nel giorno nero delle Borse e del crollo dei titoli delle banche europee. “Sono stati sottolineati gli effetti sull’economia dei ripetuti interventi sul costo del denaro. Un’esortazione ‘diplomatica’ a correggere la traiettoria dei tassi” la ricostruzione di Repubblica sul momento difficile dell’economia dell’Ue. Le difficoltà di Deutsche Bank si sono allargate a macchia d’olio e anche i paesi del nord Europa, Germania compresa, hanno infilzato Lagarde sulla tenuta del sistema bancario, chiedendo garanzie sulla solidità e sui rischi incombenti, cercando di sventare un’altra crisi come quella del 2008. “Lagarde ha confermato che la necessità di puntare verso l’alto il tasso di sconto deriva dal dovere statutario di tenere sotto controllo l’inflazione. L’obiettivo è riportarla al 2%. Ha quindi ribadito che non ci saranno altri aumenti automatici. Che si terrà conto della situazione e soprattutto di quel che accadrà sui mercati. Finché, quindi, si registrerà una tensione, la Bce non agirà con nuove decisioni lungo la linea tracciata. Poi ha voluto rassicurare i governi sulla solidità del sistema bancario ‘Il settore bancario della zona euro è resiliente perché ha posizioni solide in termini di capitale e liquidità’” il resto del riferimento del quotidiano al discorso di Lagarde al Consiglio, in cui ha assicurato che la Bce sarebbe pronta ad iniettare liquidità nella banche in caso di necessità. Da entrambi i fronti in ballo sono tutte mosse volte a rasserenare i mercati.

IL TEMPO

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Pnrr, Italia alla stanga: l’allarme di Mattarella sul piano di investimenti ancora in ritardo

sabato, Marzo 25th, 2023

Ugo Magri

ROMA. Sul piano di riforme concordato in Europa «è il momento di mettersi alla stanga», esorta Sergio Mattarella con un appello vigoroso che si indirizza a tutti senza eccezioni, ma certamente interpella in primo luogo il governo. I ritardi nell’attuazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) stanno mettendo in serio pericolo le prossime rate del finanziamento Ue. Sono in ballo 19 miliardi della terza tranche e 16 della quarta che, continuando a passo di lumaca, l’Italia non riuscirà a incassare con conseguenze di vaste proporzioni.

Quando si insediò, Giorgia Meloni fu lesta a incolparne il predecessore Mario Draghi del quale era all’opposizione; ma quattro mesi dopo, stando alla relazione semestrale appena presentata dalla Corte dei conti, i progressi non fanno ben sperare. Sono in corso contatti con Bruxelles per chiedere altro tempo e, soprattutto, per strappare una revisione degli obiettivi del Pnrr che vengono considerati in alcuni casi troppo ambiziosi da mettere in pratica, in altri da rivedere alla luce della crisi energetica. Il capo dello Stato è al corrente delle fitte negoziazioni che vedono protagonisti il commissario Ue Paolo Gentiloni e il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto; certamente tifa per il buon esito; avverte tuttavia il bisogno di dare una sveglia generale rilanciando le parole che Alcide De Gasperi, grande statista democristiano del dopoguerra, pronunciò quando si trattava di ricostruire l’Italia dalle macerie: «È il momento di mettersi alla stanga», oggi si direbbe di dare il massimo per raggiungere gli obiettivi.

Non è l’unico richiamo che Mattarella ha lanciato ieri a Firenze, intervenendo alla Conferenza nazionale delle Camere di commercio. Con molto garbo il presidente ricorda l’esistenza di una questione meridionale irrisolta che, lascia sottinteso, non potrebbe essere sacrificata sull’altare dell’egoismo territoriale. Oltre alle note diseguaglianze sociali, segnala, c’è quella «fondamentale» tra Nord e Sud. l progresso dovrà riguardare in futuro «tutto il Paese», senza trascurare le aree interne «con il loro potenziale sottosviluppato di crescita», ribadisce Mattarella.

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Le crisi bancarie e la teoria dello scarafaggio: quanti ne sono nascosti?

sabato, Marzo 25th, 2023

di Federico Rampini

Wall Street riscopre la teoria dello scarafaggio a proposito delle crisi bancarie. Non stupisce che questa metafora sia così popolare a New York, dove i bacherozzi contendono ai ratti il dominio del territorio. La teoria è questa. Quando appare uno scarafaggio nel lavandino della tua cucina o sul pavimento del bagno, e t’ingegni per ucciderlo, anche se riesci ad assassinare l’intruso non devi farti illusioni, l’animale non appartiene a una specie solitaria. Aspettati di veder apparire presto qualche suo fratello, figlio, cugino. Il primo scarafaggio è l’avanguardia di un’invasione, di solito, perché queste blatte vivono in famiglie, tribù, colonie. La teoria dello scarafaggio è stata usata per diversi tipi di crisi, in particolare i crac bancari. Anche le banche malate sono spesso parte di un gregge, non casi isolati. Il 2008 funzionò così. Il 2023 rischia di ripetere lo stesso schema?

Così è partito il crollo di Deutsche bank

La teoria dello scarafaggio non significa che il mondo sia sul punto di soccombere sotto un’invasione di questi coleotteri. Però invita ad accogliere con qualche scetticismo e circospezione le affermazioni troppo rassicuranti. Una fra tutte: «Qui da noi non può succedere». È un film che abbiamo già visto. Nel 2008 gli europei cominciarono col dire che la crisi era tutta americana, legata agli eccessi di un certo tipo di capitalismo finanziario. Poi l’Eurozona s’infilò nel tunnel di una turbolenza perfino più lunga e dolorosa di quella americana.

Nel 2023 all’inizio molti hanno detto: la Silicon Valley Bank è legata alla bolla tecnologica, è una storia tutta californiana. Poi è fallita una banca di New York. A quel punto si è sentito dire: i soliti americani… «però l’Europa è molto più sana e solida, non c’è nulla da temere sul vecchio continente». Ben presto è andato per aria il Credit Suisse, costringendo la banca centrale elvetica a prestare 100 miliardi di liquidità e l’Ubs a intervenire con un’acquisizione d’emergenza. «Ma la Svizzera non è dentro l’Eurozona», qualcuno ha rilevato, per rassicurare sull’impossibilità del contagio. In realtà i criteri di sicurezza per i capitali e le riserve bancarie in Svizzera riflettono gli standard della Bce. Comunque lo scarafaggio svizzero potrebbe avere un cugino tedesco, è la Deutsche Bank quella che oggi fa tremare i mercati. Già sento le nuove rassicurazioni, del tipo: la Deutsche Bank è sempre stata una «pecora nera», molto controversa da anni.


La cantilena è sempre la stessa: «Qui da noi non può succedere». Si capisce che le autorità bancarie e gli organi di vigilanza debbano usare questo tipo di linguaggio. Ci mancherebbe solo che seminassero dubbi e quindi diventassero loro stessi degli agitatori di panico. Però intanto gli scarafaggi continuano a sbucare dal lavandino. E viene anche il legittimo sospetto che le autorità di vigilanza usino un linguaggio rassicurante per coprire le loro stesse colpe: la Federal Reserve, ad esempio, aveva messo sotto ispezione da un anno la Silicon Valley Bank per evidenti irregolarità. A che cosa servono questi controlli, se la banca affonda lo stesso?

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Bollette, 5 miliardi per tre mesi di sconti: ora i bonus premiano chi riduce i consumi

venerdì, Marzo 24th, 2023

Luca Monticelli

Tra una settimana scadono le misure per arginare gli aumenti delle bollette che il governo aveva varato con la legge di bilancio impegnando 21 miliardi di euro. Il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti annuncia un decreto per mantenere gli aiuti contro i rincari di luce e gas per le famiglie a basso reddito anche nel secondo trimestre, ma le risorse a disposizione sono meno di un quarto di quelle messe sul piatto a dicembre.

Nel corso del Question time in aula a Montecitorio, Giorgetti anticipa che il «provvedimento urgente» a cui sta lavorando l’esecutivo, atteso martedì in Consiglio dei ministri, «confermerà l’Iva al 5% sul gas e il bonus sociale per le famiglie con un Isee sotto i 15 mila euro». Per le imprese, invece, ci sarà una «rimodulazione» dei crediti di imposta che terrà conto dell’andamento dei prezzi del metano. Si tratta di norme che dureranno da aprile a giugno per un costo complessivo intorno ai 5 miliardi. Nel pacchetto dovrebbe rientrare anche l’azzeramento degli oneri di sistema della bolletta del gas per altri tre mesi, invece lo stop dovrebbe venir meno per le fatture dell’elettricità. Le agevolazioni alle aziende che finora hanno goduto di crediti d’imposta consistenti saranno “mobili”, ovvero legate alle quotazioni dell’energia sui mercati.

La novità, aggiunge Giorgetti, è una «una misura che decorrerà dal primo ottobre con l’inizio dell’anno termico: un contributo a compensazione per le spese di riscaldamento che sarà erogato ai nuclei familiari tramite la bolletta elettrica». In sostanza, il governo ha in mente un indennizzo per gli ultimi tre mesi dell’anno che scatterà quando il prezzo del gas raggiungerà una certa soglia. L’idea su cui i tecnici stanno cercando la quadra è quella di uno sconto per tutte le famiglie, senza i paletti Isee. Nel decreto sono attesi anche dei meccanismi premiali rivolti ai virtuosi che riducono i consumi.

Proprio sulla questione degli oneri di sistema i consumatori lanciano l’allarme: «Sarebbe un bel guaio non confermare l’azzeramento, una pessima notizia considerato che le bollette sono già da infarto», sottolinea l’Unione nazionale consumatori che stima un rialzo delle utenze di oltre il 30%, con aggravi medi annuali di 425 euro per il gas e di 64 euro per la luce.

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Cosa ha deciso la Fed sui tassi: rialzo di 25 punti, mai così alto dal 2007

giovedì, Marzo 23rd, 2023

La crisi bancaria scatenata dal fallimento della Silicon Valley Bank ha spinto i mercati a ipotizzare che la Federal Reserve avrebbe potuto interrompere il rialzo dei tassi. Non è stato così, perché il già previsto rialzo da 25 punti base è stato confermato, ma lo scossone al sistema bancario statunitense ha quasi messo la corsa dell’inflazione in secondo piano: nel comunicato pubblicato al termine della due giorni della Federal Open Market Committee e nelle prime parole del presidente Jerome Powell in conferenza stampa, entrambi volti ad assicurare che “il sistema bancario statunitense è solido e resiliente”.

Al termine della riunione i Fed Funds passano così alla fascia obiettivo del 4,75%-5%, sui livelli più elevati dal 2007. Nel Summary of Economic Projections, che viene pubblicato anche a giugno, settembre e dicembre, si vede invece il taglio delle previsioni sul Pil statunitense, che dovrebbe crescere dello 0,4% nel 2023, una previsione lievemente ribassata rispetto a quanto la Federal Reserve stimava a dicembre (+0,5%). Nel 2024 la crescita prevista passa dall’1,6% di dicembre all’1,2%. Viene invece ritoccata al rialzo, dal 3,5% al 3,6%, la stima sull’inflazione Pce core per il 2023.

La Fed e i suoi membri ritengono che gli eventi di marzo provocheranno “un inasprimento delle condizioni di credito per le famiglie e le imprese”, con effetti “sull’attività economica, sulle assunzioni e sull’inflazione”. Nel frattempo l’inflazione negli Stati Uniti “rimane elevata”, e la Fed “rimane molto attenta ai rischi” collegati, senza escludere “un ulteriore irrigidimento della politica monetaria al fine di raggiungere un orientamento sufficientemente restrittivo per riportare l’inflazione al 2% nel tempo”.

Sulla crisi bancaria Powell ha detto che “è troppo presto per determinare l’entità” degli effetti degli ultimi eventi e “per dire come dovrebbe reagire la politica monetaria”. Powell ha poi incolpato il management di Svb di aver “fallito gravemente”, sottolineando che ha “esposto la banca a un significativo rischio di liquidità e di tasso d’interesse” e non ha “coperto il rischio”. Ha poi osservato che “è chiaro che dobbiamo rafforzare la supervisione e la regolamentazione” del sistema, assicurando di voler “identificare cosa è andato storto”.

Sul fronte dei tassi Powell ha usato parole che lasciando intendere la possibilità di uno stop ai rialzi: “Non affermiamo più di prevedere che i continui aumenti dei tassi saranno appropriati per contenere l’inflazione”. Rispetto alla riunione di marzo ha raccontato che nei giorni precedenti al meeting i membri della Fomc della Federal Reserve “hanno considerato” la possibilità di una pausa, affermando però che “la decisione che abbiamo preso è stata sostenuta da un consenso molto forte”. “In realtà – ha aggiunto in conferenza stampa – prima dei recenti avvenimenti, eravamo chiaramente sulla buona strada per continuare con i rialzi dei tassi”.

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Lavoro a 5 euro lordi l’ora: i nuovi contratti ingrossano le fila dell’esercito dei poveri

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Claudia Luise

Si può lavorare con un contratto apparentemente in regola ma guadagnare appena 5 euro lordi all’ora? Purtroppo, nella giungla degli accordi che è proliferata negli ultimi anni è una possibilità sempre più diffusa. Una via di mezzo tra il lavoro garantito, tutelato da contratti collettivi nazionali firmati dalle associazioni datoriali e dai sindacati più rappresentativi, e il lavoro nero. Un lavoro grigio, appunto, che guarda al ribasso non solo delle retribuzioni ma anche dei diritti. E che poi contribuisce ad allargare le fila dei working poor, le persone che nonostante abbiano un impiego, restano al di sotto della soglia di povertà per le basse retribuzioni.

Tra i settori più coinvolti, oltre a quello dei multiservizi, ci sono l’agricoltura, i servizi alla persona e il turismo, il commercio. Oltre all’edilizia che ha vissuto un boom per i bonus grandissimo e improvviso, impossibile da gestire dopo oltre un decennio di crisi. Il rovescio della medaglia, quindi, è stata la difficoltà di trovare manodopera e ditte disponibili. «A dicembre 2022 gli operai iscritti alla cassa edile di Torino risultavano 13.493, in crescita del 6,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Eppure si stima che a lavorare in questo settore ci sia circa un 30% in più di persone che hanno i contratti più disparati, dai multiservizi ai giardinieri: contratti di comodo, con paghe e contributi molto inferiori», racconta Mario De Lellis, segretario generale torinese della Filca Cisl. Il dumping contrattuale, inoltre, rende il settore più pericoloso per gli infortuni. «Un fenomeno – aggiunge De Lellis – che ha pesanti ripercussioni sulla formazione e sulla sicurezza».

Un altro caso, diverso ma altrettanto indicativo è quello del rinnovo del contratto per servizi di pulizie e servizi integrati avvenuto dopo 8 anni dalla scadenza. In questo caso i sindacati confederali alla fine hanno dovuto accettare l’accordo perché non c’era altra possibilità ma gli aumenti per l’inflazione sono di 80 euro lordi in tre anni e senza arretrati. Per il primo livello, la paga mensile è di 1104 euro mentre per un quadro arriva al massimo a 1822 euro. Praticamente la maggior parte delle persone che lavora nel settore delle pulizie, quasi tutte donne, guadagna meno di 5 euro l’ora. E poi c’è il capitolo Amazon. «Il 28 ci sarà una trattativa nazionale per i contratti Amazon – spiega Gerardo Migliaccio della Uil Trasporti – dovremmo andare a rivedere vari capitoli. E in questo contesto dovremmo affrontare la questione dei lavoratori del servizio Amazon XL, lanciato da poco, che hanno un contratto che non coincide minimamente con le mansioni svolte. Montano elettrodomestici nelle case, anche con la necessità di competenze e con responsabilità, invece non c’è una regolamentazione e hanno retribuzioni inferiori ai colleghi. Viene applicato loro il contratto della logistica».

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Lavoro sottopagato tra precarietà, orari ridotti e contratti pirata: in povertà quasi 6 milioni di lavoratori

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Luca Monticelli, Francesco Moscatelli

Abbiamo imparato il significato di “working poor” vent’anni fa con i film di Ken Loach, venendo a conoscenza di una grande massa di lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà. Un fenomeno che adesso sembra diventato tipicamente italiano, visto che il nostro è l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 ed il 2020. In Francia, solo per fare un esempio, in questi ultimi trent’anni le retribuzioni sono aumentate del 31%.

Secondo uno studio commissionato dal precedente ministro del Lavoro Andrea Orlando ad un gruppo di esperti, un quarto dei lavoratori italiani è a rischio povertà. Se gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, ecco che ci troviamo di fronte a una platea di 5 milioni e ottocentomila persone in grande difficoltà. Precari, immigrati, part time, personale a servizio della gig economy, giovani del Sud e donne: sono loro gli “ultimi” che fanno fatica ad arrivare a fine mese.

L’economista Ocse Andrea Garnero, che ha partecipato allo studio del ministero di via Veneto, spiega: «Il lavoro povero deriva dai bassi salari, ma soprattutto dal fatto che molti dipendenti sono costretti a lavorare meno ore di quante vorrebbero. L’Italia ha il dato più alto dei Paesi Ocse di part time involontario. A questo bisogna aggiungere il precariato».

Un anno fa si cominciò a parlare di salario minimo a 9 euro e 50, tuttavia l’allora governo Draghi non riuscì a mettere in piedi una proposta sostenuta da tutta la maggioranza, e la premier Giorgia Meloni la settimana scorsa è andata al congresso della Cgil per ribadire il suo no al salario minimo.

Collaboratori e Partite Iva
Mezzo milione di lavoratori, soprattutto giovani e donne, non solo fanno fatica a vivere dignitosamente, ma non avranno neanche una pensione sufficiente. L’indagine sui redditi dei parasubordinati, realizzata da Nidil Cgil e Fondazione Giuseppe Di Vittorio, porta alla luce una vera e propria emergenza sociale.

Il reddito medio di 211 mila collaboratori nel 2021 è stato di 8.500 euro lordi, 11 mila per gli uomini e 7 mila per le donne, che costituiscono il 60% del totale. La fascia di età fino a 34 anni rappresenta il 48% e guadagna in media 5.700 euro, mentre gli adulti da 34 a 64 anni sono il 49% e guadagnano 11 mila euro lordi all’anno. I senior, oltre i 65 anni, sono poco più del 2% e hanno un reddito lordo annuo di quasi 15 mila euro.

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Superbonus, le novità nel decreto: sblocco dei crediti, per le villette c’è la proroga al 30 settembre

giovedì, Marzo 23rd, 2023

di Claudia Voltattorni

L’agevolazione del Superbonus 110% destinata agli interventi edilizi sulle unifamiliari potrebbe slittare a fine settembre. È una delle nuove ipotesi su cui sta lavorando la commissione Finanze della Camera che da mercoledì ha iniziato a votare gli emendamenti al decreto Crediti, il provvedimento approvato lo scorso 16 febbraio dal Consiglio dei ministri che blocca la cessione dei crediti edilizi e lo sconto in fattura.

Il relatore Andrea De Bertoldi (FdI) ha presentato un pacchetto di 8 emendamenti riformulati condivisi con la maggioranza che includono novità come la proroga al 30 novembre per la comunicazione delle cessione dei crediti (con il pagamento di una mora da 250 euro) che rischiavano altrimenti di scadere il prossimo 31 marzo; la compensazione tra debiti per contributi previdenziali o assistenziali e crediti tributari o viceversa; l’allineamento delle detrazioni dei bonus a 10 anni. E la proroga dal 31 marzo al 30 giugno per i lavori «scontati» sulle villette.

Ma questo termine potrebbe slittare ancora al 30 settembre: il ministero dell’Economia sta valutando la proposta del relatore condivisa da tutta la maggioranza e oggi darà il suo parere. L’orientamento è di spostare più avanti la fine dei lavori sulle unifamiliari. Oggi il voto.

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Riforma Irpef, quanto si risparmia di tasse? Fino a 206 euro per redditi sotto ai 28 mila euro

mercoledì, Marzo 22nd, 2023

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

Leo: «Amplieremo il primo scaglione»

Da quattro a tre aliquote Irpef. Questo è il primo step della riforma fiscale targata Meloni, dopo che ha avuto l’ok dal Consiglio dei ministri alla legge delega e che dovrebbe prendere il via dal primo gennaio del 2024 (con effetto sulle dichiarazioni dei redditi del 2025). Su come però cambieranno gli stipendi davvero non si può ancora dare numeri certi, perché all’appello manca l’altro elemento fondamentale che partecipa al calcolo dell’imposta: ovvero, le detrazioni per lavoro, le cui nuove formulazioni (rispetto a quelle definite dal governo Draghi nel 2022) e le loro applicazioni non son state ancora definite. Dal palco della Cgil, la premier Meloni ha sottolineato il desiderio di dare subito un segnale ai lavoratori con stipendi più bassi. A spiegare come ci ha pensato qualche giorno dopo il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, che durante un’intervista a SkyTg24 ha parlato di «ampliare lo scaglione della prima aliquota» al 23%, che attualmente arriva fino a 15 mila euro di redditi da lavoro. Leo però si è detto prudente: «vedremo dove si fermerà l’asticella», ha concluso. Comunque sia, le risorse per questa riforma non potranno che arrivare dall’annunciata “potatura” delle tax expenditures, cioè le circa 600 agevolazioni che riducono ogni anno il gettito dello Stato (ma pare verranno salvate quelle legate alla famiglia, alla salute e alla casa).
Fatte queste dovute premesse, proviamo a vedere qual è il calendario di questa riforma e proviamo a fare anche qualche ipotesi su come gli stipendi potrebbero cambiare.

Le percentuali delle tre aliquote

Come detto, la premier Meloni davanti alla platea della Cgil ha chiarito di voler partire dall’attuale secondo scaglione Irpef, quello cioè dei rediti da lavoro tra i 15 mila e i 28 mila euro, ai quali attualmente si applica un’aliquota del 25%. Il governo dice di voler abbassare la pressione fiscale per questa fascia di lavoratori e sta lavorando all’accorpamento a partire dal 2024 del secondo scaglione al primo, che ha un’aliquota del 23%. Questo, significherebbe che la fascia 15-28 mila andrebbe a risparmiare 2 punti percentuali di Irpef. Per gli altri due scaglioni le ipotesi di cambio aliquote sono ancora più incerte. L’ultima fascia, quella sopra i 50 mila euro, probabilmente non vedrà alcun cambiamento e resterà l’aliquota del 43%. Per quelo che diventerà lo scaglione intermedio (28 mila-50 mila euro) le ipotesi sul tavolo sono varie: si è parlato di un irrealistico 27%, poi di un 33% e di un 35%.

Come potrebbero cambiare gli stipendi fino a 28 mila euro

Lo abbiamo detto all’inizio: senza sapere quale saranno le percentuali e come verranno rimodulate le detrazioni per il lavoro, è impossibile calcolare come le tre nuove aliquote incideranno realmente sugli stipendi. In questa fase, però, per iniziare a farsi un’idea possiamo fare un calcolo immaginando che le attuali detrazioni restino così come sono e applicando le aliquote che i rumors danno più probabili.
Se l’aliquota scendesse al 23% fino a 28 mila euro, chi guadagna tra i 15 mila e i 28 mila avrebbe un vantaggio crescente di 2 punti percentuali rispetto a oggi. Uno stipendio di 20 mila euro annui, ad esempio, risparmierebbe circa 100 euro di Irpef (il 4,9%), uno di 24 mila circa 180 euro (5,3%) e uno di 28 mila circa 260 euro (5,5%), che è poi la percentuale (e dunque il risparmio Irpef) che si applicherebbe anche a tutti i redditi superiori ai 28 mila euro per la parte che corrisponde appunto al secondo scaglione. Sotto i 20 mila euro di redditi, il risparmio è irrisorio (poche decine di euro).
Se l’aliquota scendesse addirittura al 20% (ipotesi circolata nelle scorse settimane, ma assai poco probabile), un reddito di 20 mila euro, che oggi versa 4.700 euro di Irpef, ne andrebbe a versare 4.000 e avrebbe dunque uno sgravio fiscale di circa 700 euro (-14,89%). Il vantaggio aumenterebbe via via che il reddito cresce.

Come potrebbero cambiare gli stipendi tra i 28 mila e i 50 mila euro

La riduzione di 2 punti percentuali fino a 28 mila euro avrebbe una ricaduta anche sui redditi superiori. Un reddito annuo di 30 mila euro, per esempio, risparmierebbe il 5,5% fino a 28 mila euro, sui restanti 2 mila euro, poi, entrando nello scaglione successivo e immaginando invariata l’aliquota del 35% per i restanti 2 mila euro, vedrebbe scendere il risparmio a 4,6%; mentre un reddito di 40 mila risparmierebbe in valori assoluto il 2,6% di Irpef.
Nell’ipotesi che anche il secondo nuovo scaglione (da 28 mila a 50 mila euro) vedesse scendere l’aliquota dal 35% al 33%, un reddito annuo di 40 mila euro vedrebbe un risparmio Irpef di circa 500 euro totali, mentre uno di 50 mila euro toccherebbe quota -700 euro circa di Irpef.

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