Riforma della giustizia, se si parte col piede sbagliato

di Giovanni Bianconi

Dalle dichiarazioni d’accompagnamento traspare una conflittualità che lascia presagire poco di buono

Purtroppo anche questa «riforma della giustizia», primo capitolo di un più ampio disegno politicamente targato e rivendicato dal governo Meloni e dal suo Guardasigilli Carlo Nordio, è partita con il piede sbagliato. Non tanto e non solo per i contenuti, quanto per le dichiarazioni d’accompagnamento da cui traspare un clima di conflittualità e da resa dei conti che lascia presagire poco di buono.

Sostenere, come ha fatto il ministro della Giustizia, che al Parlamento spetta fare le leggi e ai magistrati rispettarle, è un’ovvietà che nessun giudice o pubblico ministero ha mai contestato. Ma aggiungere che i magistrati non possono criticarle così come i politici non possono criticare le sentenze sembra più che una forzatura; perché quasi non c’è sentenza su questioni di pubblico interesse che non abbia suscitato critiche (o entusiasmi, a seconda degli esiti) da parte dei politici, e perché non si capisce in base a quale logica i magistrati (al pari di avvocati, giuristi e ogni altro operatore del diritto) non possano dire la loro sulle norme che dovranno applicare.

Non a caso è prassi che il Parlamento proceda alle audizioni di togati e professori, prima di decidere. Togliere legittimità alle voci critiche, tacciandole di «interferenze», non pare un modo per confrontarsi, bensì per screditare una controparte. Vissuta come tale, anziché come un altro ramo delle istituzioni al servizio dei cittadini.

Semmai bisognerebbe far capire perché — come nel caso specifico — non una delle controindicazioni all’abrogazione dell’abuso d’ufficio sia stata presa in considerazione o considerata degna di replica, che non fosse quella di un reato inutile e dannoso poiché a fronte di migliaia di iscrizioni sul registro degli indagati le condanne si contano sulle dita di due o tre mani.

Un ragionamento a doppio taglio: se ne può infatti dedurre che è tutto da buttare, ma anche che i controlli di legalità funzionano. A costo, però, della paralisi burocratica, per la «paura della firma» che blocca la pubblica amministrazione e fa dire alla quasi totalità di sindaci e assessori (compresi quelli di sinistra, come Nordio ripete ad ogni occasione) che è giusto cancellare quel reato. Peraltro più volte riscritto e ridimensionato, l’ultima nemmeno tre anni fa. Tuttavia ci si potrebbe chiedere: da che deriva la «paura della firma»? Dal controllo giudiziario su ipotetiche violazioni che il più delle volte si rivelano inconsistenti, o da una cultura coltivata in questi decenni per cui basta una denuncia per finire non solo sotto inchiesta, ma anche sotto un immediato processo politico e mediatico, prima ancora del verdetto giudiziario?

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