Saied, al tavolo col dittatore: così la potente Europa si umilia a chi in Tunisia ha scatenato la caccia al migrante

DOMENICO QUIRICO

Per definire di che stoffa è fatta una politica estera, italiana ed europea, passare in rassegna i nemici non basta. Quelli sono definiti con efficacia, stramaledetti ad ogni balzo della Storia: Putin, ovviamente, il nuovo Hitler con le atomiche, il cinese Xi con i miliardi in cassaforte e le perfide fellonie spionistiche di TikTok, e poi ayatollah e califfi. Più complicato l’identikit con gli amici, gli alleati, i partner. Perché qui tutto si fa opaco, diventa faccenda cincischiata. Guardiamo, per esempio, all’altra sponda del Mediterraneo. Chi sono gli amici? Occorre una pausa intensa per sillabare alcuni nomi che affliggono, qualcosa scricchiola nelle nostre idee chiare e distinte.

L’egiziano al Sisi, meticoloso collezionista di oppositori in galera e non solo, reincarnazione antropologica del pensionato Mubarak con la vivacità autocratica che l’età e l’abuso aveva tolto al raiss. La consolidata gang petrolifera algerina, di pretoriani e affaristi. Poi ci sono i libici: qui ancora stentiamo a trovare l’amico con la a maiuscola, il Gheddafi bis che ci garantisca petrolio e non migranti. E poi c’è lui, Kais Saied, il tunisino, destinatario di visite ormai quasi quotidiane, incalzanti, non solo più italiche ma prestigiosamente europee. A lui si rivolgono promesse di amicizia e sostegno in una prosa sempre più prensile: “insostituibile alleato”, “riferimento indissolubile e antico”, guida di un Paese in difficoltà ma che non può fallire se non al prezzo di reciproche e collettive catastrofi, Dio ci scampi. Una segatura di moine, complimenti, preoccupazioni affettuose a cui abbiamo convertito, da Roma, perfino quegli scetticoni di Bruxelles. E lo definiamo un trionfo diplomatico.

Già Saied: personaggio incandescente sulla tiepida “corniche” di Cartagine, forse un po’ frettolosamente etichettata come l’unica rivoluzione araba riuscita e provvista di Costituzione, laicità, diritti. E invece spunta lui, tra ex terroristi islamici convertiti alla bustarella democratica e maneggioni di pura epoca benalista: un politico insofferente alla rivoluzione del pluralismo a vantaggio della vecchia solfa della gestione solitaria del potere, ovviamente camuffata come “ascoltare il popolo, liquidare i politicanti eccetera…”.

Dovremmo fiutare subito le promesse olfattive dell’aspirante tiranno populista. Spigolando sulla disperazione di un Paese in miseria e saccheggiato da una classe politica corrotta e incapace si è costruito, a passo svelto, un potere assoluto a suo immagine e somiglianza. Ben Ali, il grottesco micro tiranno sgambettato dalle sassaiole dei ragazzi di rue Burghiba nel 2011, se fosse ancora vivo, si sarebbe lustrato gli occhi, invidioso di fronte a tanta meraviglia autocratica.

Allora, a guardar bene Saied, dovremmo, noi europei, insaccarlo sveltamente e senza esitazioni nell’elenco dei nemici, da isolare e soffocare: nemici della democrazia, del diritto umano, penale e costituzionale, dell’occidente tutto, con le sue sacrosante impunture legalitarie. Appena un girone sotto Putin, e solo perché le sue possibilità internazionali di nuocere sono, per ragioni di dimensioni, più modeste. Ma in questo campo è la natura del potere tirannico in sé e per sé che deve determinare la condanna, non le sue dimensioni. Noi siamo questo: combattiamo i tiranni, “senza se e senza ma”. Con le dovute eccezioni. E infatti… eccoci qua in delegazione, a scrutare speranzosi l’aggrottar di ciglia del micro raiss con certificati di giurista eccelso e fare intimidatorio, a lusingarlo per lucrarne qualche modesto riverbero di assenso, a riempirgli le saccocce di euro; deprecando, addirittura, la mancanza di “sensibilità” del Fondo monetario che gli vorrebbe imporre condizioni e vincoli, che insolenza! in cambio dell’assegno anti bancarotta.

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