La polveriera balcanica, nuovo fronte della guerra in Europa

DOMENICO QUIRICO

Mai dimenticare le guerre, soprattutto quelle che abbiamo venduto come “umanitarie”, giustissime, sacrosante. I Balcani per esempio, il Kosovo. Tutto archiviato per noi. Anche se il Kosovo non è riconosciuto da un gran numero di Stati, se ci sono sul terreno ancora le forze di interposizione Nato, se i conti da saldare tra serbi e albanesi in realtà sono tanti. Le guerre, queste guerre che trasudano impuntature etniche e vendette antiche, non hanno mai fretta di tornare a far parte del passato. Noi, invece, dimentichiamo volentieri “i dettagli”, o almeno quello che vogliamo siano tali. Abbiamo fretta di passare ad altro. Suvvia: il Kosovo non è stata una operazione riuscita della Nato? L’alleanza non ha ben altro di cui occuparsi in questo momento che le piccole truci stagioni balcaniche? È il genere di parole, queste, con cui noi impacchettiamo ciò che non sappiamo risolvere fino in fondo. Mantenere lo status quo, congelare risentimenti faziosi e voglia di rivincite: ecco la linea che abbiamo adottato in questa parte complicata e furente del mondo. Ma la sua efficacia, purtroppo, si stinge con il passare del tempo.

Infatti un giorno, nel novembre scorso, il dettaglio maledetto si presenta sotto forma di oggetti banali, le targhe delle automobili e i documenti di identità kosovari; il governo di Pristina esige vengano riconosciuti da Belgrado, campo semantico minato. Ecco tutto comincia così: un dettaglio che cigola, poi si aggiunge dentello dopo dentello, protesta dopo protesta, qualche “dettaglio” più esplosivo: per esempio il fatto che contrariamente agli accordi i kosovari non hanno dato vita alle Comunità municipali previste dagli accordi nella zona Nord dove sono maggioritari i serbi. I sindaci si dimettono per protesta. Si comincia a sentire odore di rivolta e di polvere. E poi ancora una “provocazione”: nelle zone serbe per controllare la rivolta il governo di Pristina spedisce contingenti di polizia speciale kosovara. I serbi che non riconoscono l’indipendenza proclamata nel 2008, legati come sono a Belgrado e al sogno di un ritorno alla madre patria perduta, denunciano “la repressione”.

Segnali dal sapore asprigno, scricchiolii, la pentola della crisi comincia a bollire: ma nessuno ci bada in Europa e oltre Atlantico, c’è l’Ucraina in fiamme, bisogna aiutare gli ucraini a fermare l’invasione putiniana. Intanto tra le montagne kosovare la temperatura tra le due comunità torna a livelli da altoforno: I serbi boicottano le elezioni amministrative di aprile e cercano di impedire agli eletti kosovari, che definiscono illegittimi, di insediarsi con la scorta della polizia nei comuni del boicottaggio. Non hanno torto visto che gli elettori sono stati una minuscola minoranza, 1.500 su 45 mila iscritti al voto. Arrivano i blindati da Pristina, gli scontri per strada si accendono, auto vanno in fumo, lacrimogeni e armi spianate, feriti. Fino agli incidenti di ieri, con gli italiani feriti mentre cercano di interporsi, di fermare i manifestanti.

Intanto la Serbia mette l’esercito in stato di all’erta, spedisce truppe al confine come avviene ogni volta che la tensione cresce, chiede al contingente Nato di proteggere i 120 mila serbi (su una popolazione di quasi due milioni) o altrimenti provvederà da sola. La Serbia tradizionale, storica sponda della Russia nei Balcani, il fratello slavo a cui Putin non vede l’ora di offrire appoggio aprendo un fronte meridionale nella nuova guerra europea e mondiale. Moltiplicare i fronti: una tattica perfetta per il Cremlino che deve ricambiare l’usura che gli occidentali gli impongono con la disinvolta guerra per procura in Ucraina.

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