«L’Irpef è una tassa iniqua». Ecco come dovrebbe essere riformata

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

L’Irpef necessita di una revisione generale per renderla un’imposta non solo più “semplice” ma anche rispettosa della progressività. Ne è convinto il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che durante l’audizione del 17 maggio in Commissione finanze alla Camera sulla delega per la riforma fiscale ha spiegato che il principio dell’universalità dell’Irpef risulta oggi «minato dalla previsione di specifiche esenzioni e dal ricorso all’imposizione sostitutiva per distinte tipologie di reddito che provocano una distorsione del sistema, per cui a parità di reddito individuale l’imposizione fiscale può non essere la stessa».

Irpef minata da inefficienza e iniquità

Il problema deriva anche dal fatto che l’Irpef nel tempo è stata oggetto di numerosi interventi, ha spiegato Ruffini, che «hanno reso l’imposta molto articolata dal punto di vista tecnico, oltre che caratterizzata da diverse criticità per quanto riguarda efficienza ed equità della tassazione». L’attuale sistema fiscale distingue il pagamento dell’Irpef sulla base della ritenuta alla fonte e della dichiarazione annuale. Dunque, il perimetro della riforma tributaria si restringe ai contribuenti che non pagano le imposte con la ritenuta alla fonte. Nel corso del 2022 le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica sono state pari a 544.528 milioni di euro, con un incremento di 48.484 milioni di euro rispetto al 2021 (+9,8%).Quelle derivanti dall’Irpef 269.078 miliardi di euro. Le imposte sono versate per l’81,9% da dipendenti e pensionati, ovvero il 14,5% dei contribuenti che pagano l’Irpef in base alla dichiarazione (l’evasione fiscale è stimata in più di 100 miliardi di euro). Il problema è che lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati hanno specifiche detrazioni d’imposta, cosa che rende la loro posizione fiscale diversa a parità di reddito.

Verso i 50 mila euro le differenze si riducono

Inoltre, come spiegava poco tempo fa al Corriere la Fondazione Nazionale Commercialisti, la struttura Irpef a quattro aliquote in vigore per l’anno di imposta 2023 prevede una No Tax Area (NTA) differente per le tre principali tipologie di reddito. In particolare, per il reddito da lavoro dipendente, la NTA è pari a 8.174 euro, per il reddito da pensione è pari a 8.500 euro, mentre per il reddito da lavoro autonomo è pari a 5.500 euro. Il reddito da lavoro dipendente beneficia anche del trattamento integrativo di 1.200 euro annui fino a 15.000 euro di reddito imponibile (si tratta dell’ex Bonus Renzi da 80 euro, diventato poi strutturale a 100 euro mensili). Man mano che il reddito imponibile sale e si avvicina a 50 mila euro, le differenze tra le detrazioni tendono a ridursi per azzerarsi, infine, per tutte e tre le tipologie di reddito in corrispondenza di un imponibile pari a 50 mila euro. Ciò vuol dire che l’Irpef netta è uguale per tutte e tre le tipologie di reddito in corrispondenza di questa soglia di imponibile. Le differenze tra le detrazioni sono invece molto significative nella parte bassa della curva reddituale.

Pensionati e autonomi più poveri sono i più tartassati

Insomma, i pensionati e gli autonomi più poveri sono anche i più tartassati. Le differenze tra le detrazioni, unite al trattamento integrativo di 1.200 euro spettante ai redditi da lavoro dipendente fino a 15 mila euro, determinano differenze significative nell’Irpef netta (vedi qui la tabella). In particolare, in corrispondenza di 15 mila euro di reddito imponibile, il reddito da pensione ha un’Irpef netta di 1.543 euro superiore al reddito da lavoro dipendente, differenza che sale a 2.088 euro per il reddito da lavoro autonomo (va detto che, nel caso di un reddito di soli 10 mila euro da lavoro dipendente, l’imposta diventa negativa perché ampiamente compensata dall’ex Bonus Renzi da 1.200 euro annui). Queste differenze si riducono all’aumentare del reddito imponibile.

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