Formazione professionale, un paradosso italiano

di Ferruccio de Bortoli

Centinaia di migliaia di posti restano scoperti per mancanza di candidati adeguati. E il sistema economico avrà necessità di 5,8 milioni di nuovi occupati ancora più qualificati

Sembra solo una questione di soldi. Da una parte non si sa come spenderli, dall’altra non sappiamo dove trovarli. Mai avuti tanti investimenti da fare, grazie (e non solo) al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Mai avuti così tanti capitoli da finanziare: dalle inesistenti coperture della riforma fiscale agli interventi contro il dissesto idrogeologico. Una lunga lista di promesse. I vasi della spesa pubblica, specialmente a fronte di impegni europei – che includono anche le riforme – non sono comunicanti. Qualcuno coltiva però questa insana illusione che conferisce al dibattito pubblico un’atmosfera oppiacea di leggerezza finanziaria. Ci sarebbe anche il ponte di Messina che il vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, dopo l’ultimo decreto, presenta in Rete sotto il promettente titolo: «Dalle parole ai fatti». Siamo più tranquilli.

Non è il solo paradosso dell’Italia contemporanea. Ce n’è un altro, drammatico, del quale non vogliamo, chissà perché, occuparci. Un’emergenza sempre secondaria. Il processo di rimozione è collettivo. Proprio ieri Eurostat ha ribadito che siamo, dopo la Romania, il Paese europeo con il maggior numero di ragazze e ragazzi, tra i 15 e i 29 anni, che non studiano né lavorano. Uno su cinque. E non ci scandalizziamo. Tiriamo dritto. Sull’altro piatto della bilancia del lavoro, sono raddoppiate, rispetto al periodo pre Covid, le aziende che non riescono a trovare i profili professionali di cui hanno bisogno. Una su due.

Secondo il rapporto Excelsior-Unioncamere, già oggi più di un milione e duecentomila posti di lavoro rimangono scoperti per mancanza di candidati adeguati. E nei prossimi 5 anni il sistema economico, nel suo complesso, avrà necessità di 5,8 milioni di nuovi occupati — ancor più qualificati — per sostituire tra l’altro 2,7 milioni di persone che andranno in pensione. Intanto l’Italia invecchia. Avrà sempre meno giovani che però non riesce a preparare adeguatamente, salvo farsi sfuggire quelli più bravi o intraprendenti. Siamo ancora largamente convinti — perché questo è il tenore della discussione pubblica — che per innalzare il tasso di natalità bastino gli asili nido e gli aiuti alle famiglie. Abbiamo bisogno di immigrati ma temiamo di doverli integrare. Non è solo un tabù politico. Quelli che ci aiutano in famiglia vanno bene; quelli che si incontrano per strada no.

Uno studio della Banca d’Italia, firmato da Gaetano Basso, Luigi Guiso, Matteo Paradisi e Andrea Petrella, ha quantificato in 300 mila unità, l’occupazione aggiuntiva che verrà creata dal Pnrr nel solo 2024. Gli autori si chiedono però, desolatamente al termine del loro studio, se quei posti, ad alto valore aggiunto, specie in settori tecnologicamente avanzati, verranno coperti. Sarebbe una beffa se non fosse così. Nei prossimi giorni, il ministro Raffaele Fitto, che ha la responsabilità dell’avanzamento del Pnrr, renderà nota la propria relazione sullo stato d’attuazione. Sarà interessante capire non tanto quanto si sarà speso, bensì quanto di quello che non si riesce a spendere dipenda dalla mancanza di profili professionali adeguati. In sostanza dalla qualità del capitale umano. Perché quest’ultimo è il vero obiettivo del Next Generation Eu, che non a caso si chiama così e riguarda le prossime generazioni. Non unicamente, come sembra, le infrastrutture, l’alta velocità, la rete digitale, le fonti rinnovabili. Non è solo un grande progetto di opere pubbliche per la transizione, ma anche e soprattutto un immenso investimento sul capitale umano. Rischia di fallire per le poche competenze attualmente a disposizione e rischia di diluirsi per non averne create abbastanza.

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