Burocrazia ed efficienza, uno Stato poco frugale

di Sabino Cassese

Stanziare risorse per investimenti è facile, spenderle difficile, come dimostrato dal fatto che i progetti degli ultimi dodici anni sono stati realizzati solamente per un quinto. Non è un aumento del numero dei dipendenti pubblici l’obiettivo al quale puntare

Prima il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, poi l’alluvione pongono il problema della capacità amministrativa dello Stato. Per il piano, occorre ora una revisione degli obiettivi, allo scopo di tener conto di quelli non attuati. L’alluvione richiede la realizzazione di canali di scolo, per far defluire le acque, e la costruzione di casse di espansione, opere ingenti per le quali sarà difficile provvedere in breve tempo.

Queste opere si scontrano con la storica incapacità dell’amministrazione. Abbiamo, infatti, sentito auspicare che gli aiuti agli alluvionati siano dati «senza burocrazia». Le risorse finanziarie ci sono, non c’è la capacità di realizzare le opere. Stanziare risorse per investimenti è facile, spenderle difficile, come dimostrato dal fatto che i progetti degli ultimi dodici anni sono stati realizzati solamente per un quinto. La Corte dei conti ha individuato le cause nei procedimenti lunghi e laboriosi e nella carenza di organismi tecnici, tanto più grave in un Paese nel quale vi sono cultura e scuole di ingegneria idraulica eccellenti. Si parla di ricorrere all’esercito, come per la pandemia.

Mentre ci si preoccupa, giustamente, della durata e della coesione dei governi, si dimentica che la velocità della macchina non dipende tanto dall’abilità del pilota, quanto dalla potenza del motore: è questo che determina l’andatura. E il motore dello Stato è la burocrazia.

Stupisce che, in questa situazione, il governo prima e ora la Camera dei deputati puntino, per «rafforzare la capacità amministrativa», su un decreto-legge (numero 44 del 2023) che è una vera e propria sagra di assunzioni di personale. Il testo — trenta articoli per quasi settanta pagine, accompagnato da una relazione tecnica di più di duecento pagine in qualche punto reticente e in qualche altro compiacente — è scritto con la tecnica del cuci-scuci e delle addizioni interstiziali, in modo da renderlo incomprensibile ai non addetti ai lavori, ed è destinato a raddoppiare di dimensioni nel corso dell’esame parlamentare per la conversione. Allo scopo dichiarato di aumentare la capacità amministrativa dello Stato, non fa altro che aprire le porte dei ministeri a nuovo personale. Le molte pagine del decreto-legge sono dedicate ad allargamenti di organici, incrementi di dotazioni, scorrimenti di graduatorie, riserve di posti, inquadramenti in ruolo, stabilizzazioni di personale, immissioni in ruolo, concorsi con posti riservati, assunzioni straordinarie. Tutto questo per i ministeri, mentre alle regioni e agli enti locali sono riservate solo poche briciole.

Così si realizza l’obiettivo del ministro della Pubblica amministrazione: soddisfatto di aver assunto 157 mila persone nel 2022, si propone di assumerne altre 170 mila quest’anno, oltre a stabilizzare i dipendenti assunti a tempo determinato con il piano di ripresa e di resilienza (così nell’intervista che ha dato il 24 maggio scorso a Repubblica) e a «sistemare» il personale previsto dal decreto-legge numero 44.

Questo decreto-legge è la prova del fatto che il governo ha chiuso gli occhi, senza vagliare le richieste che provenivano dall’interno dell’amministrazione, e non affronta le cause della inefficienza del settore pubblico. Il piano di ripresa prevede, entro il 2024, 200 semplificazioni. Il ministro della Pubblica amministrazione ne promette 600, ma dichiara di aver avviato il lavoro soltanto per 70 procedure. Come ha osservato Maurizio Ferrera il 21 maggio scorso su questo giornale, i processi di attuazione degli investimenti pubblici poggiano su un coacervo di regole che prevedono la partecipazione di una spropositata pluralità di attori e molti di questi chiudono il loro «passaggio a livello» e creano ingorghi per difendere anche i loro interessi.

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