Il pericolo che la Cina si chiuda e non capisca l’Occidente

Comincia dallo shock del 2008, la recessione che rafforzò in Occidente la disillusione sui benefici della globalizzazione. I dirigenti cinesi forse erano troppo intenti a celebrare il declino degli Stati Uniti; non capirono che quella crisi di consenso seminava i germi del protezionismo, avrebbe generato i dazi di Donald Trump. L’immagine della Cina tra le opinioni pubbliche occidentali è in costante peggioramento da allora. Col riflesso tipico di un autocrate, Xi attribuisce questo fenomeno alla nostra «mentalità da guerra fredda», pensa che i media occidentali prendano ordini dai governi per diffamare il suo Paese. Non si chiede quali danni abbiano inflitto all’immagine di Pechino decenni di concorrenza sleale in cui il «made in China» ha fatto fallire tante aziende nostrane, e distrutto occupazione. In una situazione simile, negli anni Ottanta l’allora dominante Giappone, essendo un Paese democratico, seppe «leggere» l’opinione pubblica americana, concesse a Ronald Reagan dei limiti alle esportazioni di auto nipponiche, investì in fabbriche sul suolo Usa per crearvi occupazione.

Rivolgendo lo sguardo all’Asia: Xi è stato incapace di prevedere l’effetto che la sua stretta repressiva contro Hong Kong avrebbe avuto sui cittadini di Taiwan, abituati alla libertà. Nell’ultimo G7 di Hiroshima ha intravisto il pericolo che si avveri il suo peggiore incubo, la nascita di una «Nato asiatica» imperniata sul Giappone. La stampa governativa di Pechino attribuisce questa evoluzione sempre allo stesso Impero del Male, l’America che aizza tutti gli alleati. Ma i cittadini giapponesi e sudcoreani non sono degli utili idioti manipolati dalla Cia. Da anni subiscono prepotenze cinesi in ogni campo, economico e militare. Hanno visto le manovre di strangolamento di Taiwan; e l’appoggio alla guerra di aggressione di Putin.

L’incapacità di Xi di capire come funzionano le nostre democrazie è l’altra faccia di un crescente sino-centrismo, non meno accecante di certe forme di occidento-centrismo. Una recente sessione dell’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino è stata dedicata a dimostrare la superiorità del sistema politico della Cina, una «vera» democrazia a differenza della nostra, scassata, litigiosa, incapace di produrre risultati. È un’opinione legittima. Il pericolo è che spenga ogni volontà di comprendere come funzionano i nostri pur difettosi sistemi.

Il centenario Henry Kissinger si augura che America e Cina riescano a parlarsi per stabilire delle regole del gioco tra rivali, così da prevenire lo scivolamento verso una guerra. L’Europa spera che le prove di disgelo funzionino, ma farà bene a prepararsi una polizza assicurativa. Sapere che tutta la transizione europea verso la sostenibilità (batterie elettriche, pannelli solari e pale eoliche, materiali rari per le tecnologie verdi) dipende dalla Cina, e pensare di non pagarne alcun prezzo, è un’ingenuità che non ci possiamo più permettere.

CORRIERE.IT

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