Le lezioni del voto in Grecia

di Paolo Mieli

Chi perde non può governare: sul ponte di comando si dovrebbe salire esclusivamente dopo aver conquistato la maggioranza nelle urne

La novità è che, dopo le elezioni di domenica scorsa in cui il centrodestra ha vinto con oltre il 40 per cento dei voti, tra la fine di giugno e gli inizi di luglio la Grecia tornerà alle urne. Si voterà, stavolta, con un sistema elettorale diverso che assegnerà al partito con più suffragi — presumibilmente Nea Demokratia di Kyriakos Mitsotakis — un consistente premio: fino a 50 seggi (su 300). Le sinistre contavano su risultati diversi: i sondaggi prevedevano per Syriza di Alexis Tsipras poco meno del 30 per cento, invece l’ex primo ministro ha ottenuto appena più del 20. I socialisti sono cresciuti giusto quel po’ che è servito a mandarli a dormire felici. Ma la sera stessa di domenica si è capito che con quei risultati era impossibile dar vita a maggioranze stabili. Così a decidere chi governerà la Grecia per i prossimi anni, non sarà il Parlamento, ma l’elettorato.

In un certo senso la Grecia affronta problemi simili a quelli di cui ci occupiamo da circa trent’anni qui in Italia. Presidenzialismo, semipresidenzialismo, sistema maggioritario, proporzionale puro o con correzioni le più svariate, si torna sempre lì: chi deve scegliere il governo, il Parlamento coadiuvato dal capo dello Stato o gli elettori? La sinistra — in Grecia, come in Italia — vuole che siano le Camere, eventualmente con una generica indicazione dell’elettorato. Così, del resto è scritto nella Costituzione. Pur se la Costituzione su alcuni punti specifici può essere cambiata e la stessa sinistra non si è tirata indietro quando ha ritenuto che fosse il caso di farlo.

La realtà è però che in Grecia come in Italia il centrosinistra non si fida della propria capacità di dar vita ad una coalizione che raccolga un voto in più di quelli che prendono gli avversari. Anzi, non sa neanche costruirla una coalizione. Il centrodestra così come è stato fondato nei primi anni Novanta da Silvio Berlusconi ha invece fiducia nelle proprie capacità. Ha dimostrato di essere capace di saperla edificare quella coalizione. Anche adesso che, scomparse le arti magiche del fondatore, sono entrati in campo i successori. La sinistra — a dire il vero — accettò il principio del maggioritario venticinque anni fa quando al timone c’era Romano Prodi (e con lui Arturo Parisi). Poi sfasciò tutto e nell’ultimo decennio ha contato solo sul gioco delle alleanze in Aula, quello per cui l’importante non è vincere le elezioni bensì trovare in Parlamento partiti o gruppi di transfughi disponibili a dar vita ad un governo. Li si trova sempre. Il punto adesso è: dopo qualche diniego che si addice a tempi in cui questo tipo di prospettiva non è neanche all’orizzonte, la sinistra immagina, in una fase successiva, di dedicarsi alla costruzione di nuove «unità nazionali»?

Sembra di no. Come fare allora a darci strumenti che consentano di resistere alla tentazione tornare allo scorso decennio? Probabilmente è di questo che si parla quando viene messo sul tavolo l’incartamento del presidenzialismo. Impone qualche riflessione un uomo saggio qual è l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, il quale ha dichiarato (a la Repubblica) che «il presidenzialismo fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi sembra fatto apposta per esaltare l’aspetto distruttivo».

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