Massoneria braccio destro della mafia: il piano di Messina Denaro

di  Goffredo Buccini 

In trent’anni di latitanza, Matteo Messina Denaro cercava maggiori rapporti con la politica. La loggia l’avrebbe protetto anche fuori dal Trapanese

U Siccu aveva in testa un’idea grandiosa: che la mafia si pigliasse la politica. Come? Creando logge massoniche coperte «ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne divenga il braccio armato», scrivono cinque anni fa i parlamentari della Commissione Antimafia nella loro relazione conclusiva. Era stato lo stesso obiettivo di un altro padrino dalla vista lunga: Stefano Bontate, il «Principe di Villagrazia», massone della prima ora e monarca della vecchia mafia, ammazzato dai Corleonesi nel 1981. Come lui, anche Matteo Messina Denaro pensava in grande, diversamente dal viddano Riina che pure l’aveva tenuto a balia ma ne capiva solo di scannare cristiani. Anche ‘U Siccu, figlio del capomafia di Castelvetrano «don Ciccio» e istruito dal Capo dei capi come killer («impara bene…»), aveva ammazzato «tanta gente da riempire un camposanto», s’intende. Ma dopo le stragi aveva sterzato la sua Cosa Nostra sugli affari, l’aveva immersa nel «gioco grande» di cui parlava Falcone, relazioni a New York e in Venezuela, Spagna e Inghilterra, eolico, edilizia, supermercati, cliniche, villaggi turistici, piccioli per tutti, un giro stimato da Libera attorno ai quattro miliardi, meno sangue e tanti legami occulti, fino a farsi, secondo qualche pentito, una loggia segreta tutta sua, La Sicilia. 

Radici

«La massoneria è un cemento che lega le persone e le fa stare anche fisicamente in un’unica stanza, di compensazione, dove possono realizzare i loro interessi non sempre leciti», spiegò Michele Prestipino all’Antimafia quando era procuratore aggiunto di Reggio Calabria, altra terra dove molti uomini d’onore portano e portavano il grembiulino, a cominciare da don Paolino De Stefano, il mammasantissima che regalava scarpe a mezza città («così chisti camminano sulle scarpe mie»). Per trent’anni Messina Denaro è sfuggito agli «sbirri» sempre inseguendo la sua idea di potenza, che sempre ha avuto una radice profonda nella sua Castelvetrano, tanto che la Commissione presieduta da Rosy Bindi nel 2017 dedica a questa cittadina del Trapanese di trentamila anime (dove l’altro giorno a manifestare in piazza contro il boss sono scesi in trenta) il primo capitolo del fondamentale dossier su massoneria e clan: la chiave è «il consenso della società civile», non vessata dal pizzo ma, anzi, aiutata dal «sostegno mafioso» e pronta a offrire in cambio «la titolarità di quote delle imprese»: e non solo quella. Teresa Principato, l’ex procuratrice di Palermo che a lungo ha dato la caccia al latitante, ha raccontato due anni fa a Carlo Bonini di essere rimasta «sconcertata», scoprendo che il padre di Matteo, il boss don Ciccio, mandante del delitto Rostagno, era campiere della famiglia D’Alì, banchieri e proprietari terrieri: «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni, dalle questure ai Servizi. Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini». Ora ha spiegato che «una rete di copertura di carattere massonico lo ha protetto in tutto il mondo». Carte e agendine sequestrate nei suoi covi potranno dire molto. Ma parecchio può dire anche la vita quotidiana di Castelvetrano e dintorni. Uno degli eredi dei D’Alì, Antonio, è appena entrato in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa: è stato senatore di Forza Italia e sottosegretario agli Interni. Un medico assai influente nella sanità siciliana come Giovanni Lo Sciuto, sotto processo per l’inchiesta Artemisia, passato da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Alfano, è arrivato a sedere nella Commissione regionale antimafia mentre, intercettato con un «fratello» di loggia segreta, si vantava dell’amicizia con Matteo: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene, poi lui ha fatto la sua strada … minchia, come mi tratta, mi tratta mi tratta». Si definiva «sentinella» nell’Antimafia, ma con un’accezione un po’ particolare: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose di qui le prendo e le strappiamo». È un crocevia dei misteri d’Italia, questo. Nel 1950 fu ritrovato qui, nel cortile di un avvocato, il cadavere del bandito Giuliano, col suo carico di enigmi e depistaggi («Di sicuro c’è solo che è morto», fu il mitico incipit di Tommaso Besozzi sull’Europeo). A metà anni Ottanta scoppia a Trapani il caso della loggia segreta Iside 2, sotto l’insegna del circolo Scontrino, dove s’incontrano uomini delle istituzioni e boss come Mariano Agate, «per comporre interessi mafiosi, politici e imprenditoriali compresi quelli riconducibili ai Messina Denaro». Nella sola Castelvetrano la Commissione Bindi segnala sei delle diciannove logge attive nella provincia di Trapani e legate a quattro «obbedienze». Il Comune, sciolto a suo tempo per infiltrazione mafiosa, era arrivato ad avere metà dei suoi consiglieri e dei suoi assessori affiliati a qualcuna di esse. «Pare un ossimoro, ma la massoneria è stato un luogo di occultamento alla luce del sole», sorride triste Claudio Fava, che da vicepresidente ha firmato la relazione Antimafia del dicembre 2017.

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