Cuperlo: “Noi del Pd stiamo sulle scatole al Paese. Paghiamo errori e arroganze”

Carlo Bertini

«Non voglio eludere il problema e la dico con un linguaggio che non è il mio: noi stiamo letteralmente sulle scatole a una parte della società italiana, si è spezzato un rapporto e un legame di fiducia con una parte del Paese». Gianni Cuperlo, uno dei leader della sinistra interna del Pd, torna in parlamento dopo cinque anni di pausa forzata “causa Renzi”. E sferza la classe dirigente dem, senza tirarsi fuori dalla mischia, anzi. Non concorda con gli appelli di chi, come Rosy Bindi su questo giornale, chiede al partito di sciogliersi, «ma serve un vero congresso costituente». E dice di essere contrario alla costruzione di una «cosa rossa» con un’altra scissione, «perché in un momento come questo e con una destra così forte, dividere e indebolire la principale forza del campo democratico e della sinistra sarebbe un errore esiziale e contro questo mi batterò».

La domanda dunque è: perché state sulle scatole?

«Da un lato conta che da 16 anni non abbiamo vinto le elezioni e per 10 anni siamo stati al governo, con buone ragioni e facendo anche buone cose. Ma questo ha trasmesso la percezione di un partito di establishment e di potere. E in secondo luogo, paghiamo il prezzo di errori e arroganze, sul jobs act, sull’articolo 18, sulla legge elettorale, sul taglio della rappresentanza parlamentare. Quindi stare sempre al governo e avere questa arroganza nelle riforme provoca una situazione in cui non basta nemmeno avere un programma di sinistra dopo che a volte hai condiviso politiche distanti dai tuoi valori. Conta molto chi quel programma lo racconta e la lingua con cui lo fa. Devi apparire credibile e coerente».

E Letta non lo era?

«Letta ha fatto il possibile ma non si recuperano anni in pochi mesi. I nostri elettori sono esigenti, perdonano degli errori, non ti perdonano la distanza coi loro bisogni e sentimenti. E una classe dirigente deve avere l’umiltà di riconoscere questo limite. Davanti ai cancelli di Mirafiori l’atteggiamento degli operai lo percepivi nello sguardo, con l’accusa che tu fisicamente non c’eri più stato in quel luogo. Quindi abbiamo bisogno di accompagnare il racconto di un Paese più giusto con esempi coerenti».

Il Pd va sciolto e rifondato?

«No, penso che anche l’appello a scioglierci non tiene conto di due elementi. Dobbiamo essere severi, ma non possiamo permetterci di buttare via una riserva di valori, consenso e umanità. La rivoluzione digitale ha cambiato tutto e non abbiamo interpretato una inquietudine e spaesamento diffusi. Ma da soli questo confronto non siamo in grado di farlo».

Condivide il percorso congressuale di Letta?

«Va bene che non si parta dai nomi e dai gazebo. Ho ascoltato il discorso sciagurato di Putin, e allora partiamo dal capire questo tempo. Pace e disarmo non possono essere concetti rimossi. Al pari di povertà, innovazioni e diritti. Poi se alla fine capiremo che va cambiato tutto, nome, simbolo e impianto, lo si farà. Le case si costruiscono scavando le fondamenta. Se parti dal tetto, dalle candidature all’insegna dell’io ci sono, senza prima un confronto aperto tra tutti, non funziona, anche perché una casa senza il tetto può finire allagata e noi abbiamo l’acqua in casa, ma un tetto senza casa semplicemente non esiste».

No al la corsa a candidarsi?

«Beh, questa corsa repentina a candidarsi senza un attimo di pausa per capire, ascoltarsi e scavare nelle radici di quel risultato, temo sia il riflesso di un individualismo penetrato dentro di noi. Non mi convince l’idea che a turno qualcuno possa alzarsi e pronunziare la battuta di Mister Wolf in “Pulp Fiction”, “Risolvo, problemi”. Questo non serve e rischia di precipitarci nell’irrilevanza».

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