Italia, generazione disarmata

Domenico Quirico

Proviamo a immaginare un punto di vista diverso per decifrare la scarsa attenzione che l’opinione pubblica occidentale e italiana, in particolare i giovani, presta al quotidiano aggravarsi e allargarsi del fronte della guerra ucraina. Ormai sotto vesti Nato ascesa a scenari globali. Dopo cinque mesi continua a esser percepita come un conflitto barbaro ma circoscritto ai due protagonisti, che prima o poi basterà una spintarella per far abbiosciare il colpevole, Putin, e reintegrare l’Ucraina nei suoi sacrosanti diritti di paese invaso e parzialmente smembrato. Anche se non basta avere ragione in guerra e in politica, bisogna avere vittoria.

È sorprendente: la guerra in sé non spaventa, eppure è una mischia feroce, selvaggia. Semmai turbano un po’ le sue conseguenze indirette, aumento dei costi economici, penurie, nuove migrazioni. Non parlo del giudizio sulla giustizia della causa ucraina e il torto russo, invasore che fa di tutto per rendersi odioso, condiviso da una larga maggioranza perché evidente. Parlo della paura: fisica, personale, elementare, che ti impregna la giornata, la paura di essere anche tu sotto le bombe e nelle trincee come i soldati del Donbass. Riusciamo a vivere nella guerra lontano dalla guerra come se intorno a noi si fosse avvolto una specie di bozzolo. La malattia del secolo, la preoccupazione, qui non si avverte.

Invece pacifisti e cassandre scomparse, Papa zittito, si aspettano fiduciosi le vacanze. Sono dunque efficaci le rassicurazioni dei governanti che più agiscono per prolungare la guerra ed alzarne il livello più usano i diminutivi, garantiscono che noi non la stiamo combattendo. Direttamente: ecco l’avverbio chiave, direttamente.

A dar loro una mano nel controllare umori e tremori dell’opinione pubblica contribuisce il fatto che questa è la prima guerra non geograficamente periferica che le giovani generazioni italiane vedono in televisione e sui media vecchi e nuovi senza che per loro contenga la possibilità, o meglio l’incubo, di essere coinvolte in prima persona a causa della leva obbligatoria.

Immaginiamo che la leva non sia stata sospesa dal 1990 e poi abolita dal 2005 e sostituita da un esercito di professionisti, ponendo fine (ma davvero in modo definitivo?) a un dibattito avviato con la leva in massa dei rivoluzionari del 1789. Immaginiamo che ogni sera migliaia di famiglie guardino al telegiornale le scene del tritacarne russo con la sua brutalità meccanica e ascoltino le contromisure che la Nato riunita a Madrid e i governi occidentali adottano per sconfiggere quello che è stato ormai definito come “il nemico’’ (e non è questa una esplicita dichiarazione di guerra’’?). Cosa accadrebbe, intendo politicamente, se dovessero riflettere sulla possibilità che arrivi la “cartolina’’ che accompagnerebbe obbligatoriamente i figli mariti e i nipoti verso caserme e reggimenti, appena abbandonate dopo i dieci mesi con salutare esultanza? Se la scelta non fosse dunque per noi molto accademica, tra pace e condizionatore. Ma non ci fosse come un tempo nessuna scelta: ovvero la guerra e basta.

La garbata attenzione all’Ucraina cambierebbe senso, come può cambiare la direzione del vento. Ma l’attenzione, il rifiuto della guerra dovrebbe essere istintivo, indipendente dal coinvolgimento diretto.

Nessuna nostalgia, per carità, per la “naja’’. Per sintetizzare in una parola breve ed efficace il servizio militare nel secondo dopoguerra basta una sola paroletta: uffa! quella sopravvivenza militaresca, quella specie di morta gora dopo tutto quello che la seconda guerra mondiale aveva distrutto apparteneva al massimo alla meditazione sulla stupefacente forza di sopravvivenza delle istituzioni umane. Ma quei mesi inutili passati in caserma da cui la maggioranza non vedeva l’ora di evadere per riprendere la via più spedita verso la vita normale, collegavano migliaia di giovani alla idea della guerra, alla possibilità un giorno che quei fucili, quei cannoni dovessero impugnarli e puntarli verso altri uomini, sconosciuti, il Nemico. Che stava a oriente come ai tempi di Cecco Beppe. La guerra insomma per loro esisteva. Dopo la fine della leva è scomparsa. Divenuta impossibile. Remota. Riguardava coloro che l’avevano scelta come mestiere e accettavano l’ipotesi di morire.

Se esistesse ancora questa paura privata, la massa dei dubbiosi dei contrari sarebbe molto alta. Ci sarebbero i cortei e i sit-in contro la guerra. Non a favore della Russia, che i putiniani se li sono inventati i trinceristi dell’atlantismo: perché senza reprobi come si fa a dire di avere ragione? Un tempo si dubitò se valesse la pena morire per Danzica. Credo, purtroppo, che sorgerebbero dubbi anche se valga la pena morire per il Donbass.

L’assenza del rischio personale incide sulla percezione della guerra. Nel senso che essere come è giusto a fianco degli ucraini appare come faccenda teorica, senza conseguenze.

La istituzione della leva che fu il primo atto del nuovo Stato unitario, ha cambiato l’Italia, mescolando genti che appartenevano a Stati diversi, ha insegnato una lingua comune a masse di analfabeti che la scuola non poteva ancora raggiungere. Ha davvero fatto gli italiani.

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