Così i tre gradi di giudizio rallentano la giustizia

Giuseppe Pignatone

«Troppe leggi, troppe norme, troppi processi» ha ripetuto anche di recente la ministra Cartabia, individuando con precisione quella che – insieme alla cronica, finora, insufficienza delle risorse – è la causa principale dei tempi lunghi che affliggono la giustizia penale. Ho già sottolineato su questo giornale (Troppi reati frenano la giustizia, 8 ottobre 2019, Tre proposte per la giustizia, 10 maggio 2021) l’importanza del dato quantitativo che rende irragionevole ogni confronto con altri Paesi. Mi limito qui a citare il fatto che le notizie di reato e quindi i procedimenti, che incamera un pm italiano sono otto volte superiori alla media europea. Peraltro, data l’obbligatorietà dell’azione penale scritta in Costituzione, il pm deve trattare ogni singolo fascicolo, sottoponendolo al vaglio di un giudice anche in caso di archiviazione. È un dato numerico che lascia poche speranze e che potrebbe essere ridimensionato solo da una seria depenalizzazione, opzione ancora oggi esclusa dalle forze politiche. Sui “troppi processi” che ne conseguono, la Guardasigilli è già intervenuta introducendo norme per evitare che almeno parte dei procedimenti definiti dalle Procure arrivi al dibattimento. Sapremo nei prossimi anni se e in quale misura sarà stato raggiunto questo risultato.

Tra le concause dei tempi inaccettabili del fare giustizia, vanno considerati anche l’innata litigiosità degli italiani, confermata dalle statistiche, e la storica presenza delle mafie nel nostro Paese. Quelli di mafia sono spesso processi molto complessi e con imputati detenuti: hanno quindi la priorità e rallentano il trattamento di tutti gli altri. Non è un caso che tra le sedi più in difficoltà ci siano proprio quelle di Napoli e di Reggio Calabria. Ma sui tempi lunghi della giustizia incide in modo altrettanto significativo la scelta (del tutto politica) di mantenere nel nostro ordinamento, nonostante l’adozione del rito accusatorio, tre gradi di giudizio (e altri tre gradi previsti per ogni misura cautelare), tutti fondati sull’obbligo di motivazione. Anche in questo caso non sono possibili paragoni con i sistemi di altri Paesi europei. Non solo con quelli anglosassoni, in cui il verdetto è emesso da una giuria senza motivazione, ma anche con altri più simili al nostro come quelli continentali. Vero è che anche questi prevedono i tre gradi di giudizio, ma mentre in Italia a ogni sentenza di condanna possono seguire (e di solito seguono) l’appello e il ricorso in Cassazione, altrove esistono filtri efficaci per ridurre il numero delle impugnazioni. In Francia e in Germania, solo per fare un esempio, gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all’estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata.

Questo spiega anche perché le sentenze di quelle Corti sono poche migliaia l’anno a fronte delle oltre 50mila emesse dai giudici di Piazza Cavour, costretti a occuparsi anche di processi di importanza trascurabile e di questioni riproposte all’infinito, dato che comunque conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità), o in una nuova legge o in un mutamento di giurisprudenza che capovolga il giudizio o almeno mitighi la pena. Una valanga di decisioni che peraltro implica un certo tasso di contraddittorietà e quindi un’erosione di autorevolezza dell’organo che dovrebbe assicurare l’uniformità della giurisprudenza.

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