Djokovic, il pasticcio in Australia conferma: lui è il più forte, Federer e Nadal sono i più grandi
Il caso del Covid e Djokovic: Novak nel circuito non è amato, Nadal è universalmente ammirato, Federer è il dio del tennis. La ferocia del serbo attinge dallo stesso pozzo buio da cui vengono le follie antiscientifiche, le pallate al giudice di linea, la tigna no-Vax
Se tutti quanti noi — che già
così abbiamo le nostre fisime e le nostre asperità — avessimo vinto
venti Slam, saremmo insopportabili pure a noi stessi. Ciò premesso, quel
che sta accadendo in Australia aiuta a capire meglio chi siano i tre
più grandi tennisti della storia, e quali fantasmi si portino dentro. Il tennis è il più cerebrale dei giochi. È un incrocio tra il pugilato e gli scacchi.
Uno stupido può vincere la finale olimpica dei cento metri, può battere
tutti i record del nuoto, può persino diventare un grande calciatore;
ma non sarà mai un buon tennista.
Va da sé che Novak
Djokovic (e non Novax Djokovid: nessuno è responsabile del nome che
porta, e i nomi non si storpiano mai), Roger Federer e Rafael Nadal, immensi tennisti, sono anche uomini molto intelligenti. E allora perché? Perché Djokovic si è intestardito al punto da farsi rinchiudere in un centro per immigrati clandestini, e da esporsi a una brutta figura mondiale? Tutti sanno che nel circuito Djokovic non è amato.
Nessuno può raccontare di aver subito un torto o di aver ricevuto una cattiva parola da Nadal, che è universalmente ammirato
; al limite chi non lo conosce può trovarlo un po’ noioso (mentre
nella vita quotidiana è delizioso e ama parlare anche degli argomenti
che in pubblico evita, come la politica). Federer da giovane urlava in campo e spaccava le racchette;
poi ha imparato a governare se stesso, e ha mostrato una precoce
maturità, grazie anche a una moglie molto presente e a quattro figli
(Nadal, oltre a pagare le tasse nel suo Paese, spende moltissimo per
occuparsi dei bambini disagiati, ma figli suoi non ne ha ancora).
Djokovic fa l’amicone, si congratula con gli avversari che lo
battono — dopo l’eliminazione al primo turno dell’Olimpiade di Rio ha
abbracciato Del Potro per mezzo minuto —, elogia i giornalisti, arringa
il pubblico in almeno cinque lingue, va in tv da Fiorello, fa le
imitazioni dei rivali, sa ridere pure di se stesso; ma talvolta non
riesce a governare il proprio lato oscuro. L’infanzia difficile, le
ombre della guerra, una costruzione più lenta e complessa rispetto a
Roger e Rafa, la scoperta dei problemi e dei limiti del proprio corpo:
molte cose possono averlo condizionato. Ma, soprattutto, Djokovic è un vero fighter; anzi, è un vero killer.
Federer è il dio del tennis, Nadal il suo Prometeo. Federer gioca
danzando grazie al proprio dono naturale, Nadal si è innalzato sino
all’Olimpo grazie alla sua intelligenza superiore e alla sua
straordinaria capacità di combattere. Ma Djokovic in campo è il più
feroce. Quello che gioca i punti importanti con lucidità chirurgica. Che
al Foro Italico annulla un match-point (sempre a Del Potro) con una
palla corta millimetrica. Una ferocia cui attinge dallo stesso pozzo
buio da cui vengono le follie antiscientifiche, le pallate al giudice di linea, la tigna No-Vax che l’ha portato prima a prendersi il Covid in un assurdo torneo auto-organizzato in piena pandemia, poi a cacciarsi nel pasticcio australiano.
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