Facebook addio, Zuckerberg cambia nome in Meta per allontanare i guai

di Massimo Gaggi

Per il fondatore del social network la pressione è diventata asfissiante dopo la denuncia dell’ultima whistleblower: gli effetti di Haugen sono stati molto più pesanti degli scandali passati

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NEW YORK — Contestata da quando, 5 anni fa, emerse che sapeva di essere stata usata per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016, universalmente condannata 3 anni fa per lo scandalo di Cambridge Analytica, Facebook vive ormai in uno stato d’assedio permanente mentre il Congresso prepara leggi per regolamentare le imprese della Silicon Valley a partire dalle reti sociali. Per Mark Zuckerberg la pressione è diventata asfissiante con la denuncia dell’ultima whistleblower, Frances Haugen. Un caso diverso dai precedenti: stavolta a raccontare le scelte aziendali dannose per la società e per la democrazia viste dall’interno di Facebook non è una ex dipendente di basso livello ma un personaggio di spessore cresciuto in Google, Yelp e Pinterest prima di diventare product manager del dipartimento integrità civica di Facebook.

Quando Frances è andata via e ha lanciato le sue accuse, gli effetti per Facebook sono stati assai più pesanti rispetto ai casi del passato per due motivi. Innanzitutto la Haugen si è portata via migliaia di documenti, resi pubblici e consegnati alla Sec, il «poliziotto» della Borsa Usa, dai quali emerge che l’azienda sapeva dei danni provocati dalle sue piattaforme: da quelli arrecati ai giovani utenti di Instagram alla diffusione di odio attraverso Facebook in Paesi, dalla Birmania all’India, sconvolti da conflitti etnici, tribali o a sfondo religioso. Il gruppo li aveva studiati ma non era corso ai ripari per non danneggiare i suoi business e aveva mantenuto segreti i risultati delle sue indagini: pessimo per il rapporto di fiducia con gli utenti e rischioso sul piano legale. Sec e Ftc (altro ente regolatore del mercato) potrebbero accusarlo di aver nascosto informazioni rilevanti per gli azionisti.

Poi, spalleggiata da un miliardario, il cofondatore di eBay Pierre Omidyar, da Lawrence Lessig, celebre attivista e giurista della rivoluzione digitale e da un ex addetto stampa della Casa Bianca di Obama, Bill Burton, la Haugen ha messo in piedi una massiccia campagna di rivelazioni che il New York Times ha paragonato allo sbarco in Normandia: interviste televisive, audizioni davanti al Congresso Usa e al parlamento britannico e, addirittura, la creazione di un consorzio di testate giornalistiche che stanno estraendo dai Facebook Files centinaia di articoli servizi televisivi. Facebook oggi affronta due emergenze: un danno reputazionale molto evidente e conseguenze aziendali più difficili da quantificare perché legate a diverse variabili, dalle reazioni dei mercati alla reale capacità d’intervento della politica.

Sulla reputazione Zuckerberg si muove col cambio di nome e passando da una strategia difensiva (le scuse sussurrate ogni volta che a Facebook venivano contestati danni provocati alla comunità) a una offensiva: niente più scuse ma accuse ai media («uno sforzo coordinato per dare un’immagine falsa della società» usando documenti trafugati) e alla politica. Dopo aver osteggiato per anni ogni tentativo di regolamentare il digitale, ora Facebook conduce una campagna pubblicitaria sui media per chiedere regole e quando il Congresso la accusa di fare danni, replica: «Fate il vostro lavoro di legislatori anziché chiedere a noi di sopperire alla vostra incapacità».

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