La nuova e inattesa sovranità: così torna lo Stato nazionale

di Ernesto Galli della Loggia

Con gli effetti che produce nella realtà delle cose e nelle mentalità delle persone la pandemia, che da tempo imperversa nel mondo, sta contribuendo potentemente a rendere evidente anche la crisi della globalizzazione. La crisi cioè — se non forse la fine — di quella fase storica che per almeno un trentennio ha dominato la realtà economica e ideologica del nostro pianeta. Sono almeno tre i fattori che stanno segnando la probabile fine del ciclo storico apertosi negli anni 80 del secolo scorso.

Il primo fattore è la definitiva frantumazione dell’ordine internazionale uscito dalla fine «guerra fredda« (1991). Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto — Cina, Russia, Turchia, Iran, India — e altre minori premono in cerca di spazio. Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti. Né d’altro canto la globalizzazione sembra avere prodotto alcuna apprezzabile diffusione della democrazia, mentre il mito della pace — tanto più se «mondiale» — si rivela sempre più un mito.

Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio — che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’ Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001 — ha perduto buona parte del suo consenso. Il libero scambio, infatti, ha determinato sì la crescita economica di alcuni Paesi (molto probabilmente però a scapito di quella di altri), ma ha mostrato un drammatico punto debole. Anzi due. Innanzi tutto dietro il suo schermo e grazie ad esso ha potuto prendere forma l’inquietante progetto di Pechino volto a impadronirsi di punti geografici chiave, di risorse e di tecnologia strategiche dell’economia mondiale, al fine di costruire la propria egemonia planetaria. Così come del resto, bisogna aggiungere, ogni Paese ha cercato in realtà di far girare le cose a proprio esclusivo vantaggio. In secondo luogo, proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo. Ma oggi ci accorgiamo che proprio su questo punto è lecito nutrire più di un dubbio: davvero non ha alcuna importanza, ad esempio, che una fabbrica, mettiamo di vaccini o di mascherine, si trovi in Italia o chissà dove? Che essere in grado o no di produrre in casa propria certi dispositivi elettronici sia indifferente?

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