La rotta di Biden: gli ideali politici prima degli affari

VITTORIO E. PARSI

La pubblicazione del rapporto della Cia sull’omicidio Khashoggi conferma quello che tutti sapevano da almeno tre mesi e che si sospettava fin dall’inizio della sanguinosa vicenda: ovvero che dietro il delitto ci fosse il principe ereditario e primo ministro saudita Mohamed bin Salman (MbS).

La decisione di desecretare il documento, di cui il re saudita e padre del principe era stato avvisato in anticipo con una telefonata da parte del presidente americano, è tuttavia un gesto di rilevante importanza simbolica: segna il ritorno degli Stati Uniti a una conduzione della politica estera nella quale, accanto agli interessi, anche i valori devono trovare il loro posto. La tradizione americana è del resto questa: un impasto di realismo e idealismo. A ribadirlo, il fatto che, nello stesso giorno in cui si annunciava la pubblicazione del rapporto su Khashoggi, aerei americani colpivano in Siria alcune posizioni di milizie filo-iraniane responsabili di attacchi alle basi americane nel Kurdistan siriano.

In poco più di un mese di presidenza, Joe Biden ha ammonito severamente la Russia sul caso Navalny e ha rammentato al Cremlino che la questione dell’annessione della Crimea non è in nessun modo superata. Ha chiarito alla Cina che gli Stati Uniti non tollererebbero pressioni militari su Taiwan. Ha sospeso le forniture di armi all’Arabia Saudita e tolto la propria copertura politica alla guerra in Yemen. Si tratta di uno sforzo importante per la ricostruzione della credibilità degli Stati Uniti come leader di un sistema internazionale ancora fondato sull’adesione a quei principi liberali intorno ai quali Washington ha costruito l’ordine internazionale del Novecento. La capacità americana di presentare la propria egemonia come “il male minore” rispetto a qualunque altra alternativa è del resto una delle ragioni principali dell’opposizione relativamente modesta che essa ha incontrato. Non per caso, proprio l’appannamento del prestigio americano e della natura “unica” della sua leadership ha offerto a Pechino una gigantesca opportunità per proporsi come un candidato possibile alla successione, contribuendo a minimizzarne i fattori di debolezza: che sono principalmente di carattere politico e normativo piuttosto che economici.

Uno dei danni principali inferti dall’amministrazione Trump al prestigio degli Stati Uniti nel mondo deriva proprio dalla scelta deliberata di ignorare questa tradizione così importante. L’Arabia Saudita era stato il primo Paese visitato dal neoeletto Trump e MbS era stato tra i primi leader a essere ricevuto alla Casa Bianca. Ora Joe Biden afferma che MbS è “impresentabile”. Vedremo nelle prossime settimane gli sviluppi da parte saudita. Va comunque osservato che, con buona pace dei suoi gratuiti e retribuiti adulatori, sotto la guida di MbS, il ruolo regionale del “Regno” si è indebolito. La lotta senza quartiere contro l’Iran – condotta dapprima attraverso il coinvolgimento massiccio nella guerra civile siriana e con il robusto contributo alla destabilizzazione dell’Iraq, poi scatenando la guerra in Yemen, infine con un sempre più marcato riavvicinamento a Israele – non ha prodotto i risultati sperati. E questo nonostante il deciso sostegno garantito ai sauditi durante i quattro anni di presidenza Trump. Anche le riforme interne segnano il passo, come peraltro il tentativo di rendere il futuro del Paese – e della dinastia – meno dipendente dagli introiti petroliferi.

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