La mesta vita cui ci siamo (quasi) abituati

di MICHELE BRAMBILLA

Cade in questi giorni il mesto anniversario della più grande pandemia che abbia mai colpito il nostro Paese, almeno per quanto riguarda le attuali generazioni. Erano gli ultimi di gennaio e i primi di febbraio quando si ebbe notizia dei primi casi di coronavirus in Italia (ancora nessuno usava, nel parlato comune, il termine Covid). Alcuni esperti ci rassicurarono: è poco più di una brutta influenza. Sono gli stessi esperti che poco dopo avrebbero cominciato a occupare le tv per ricordarci che dobbiamo morire. Nessuno di noi, comunque, poteva ancora immaginare che la nostra vita quotidiana sarebbe stata rivoluzionata come mai era successo, in precedenza, nell’arco di un solo anno.

Non parlo tanto del lockdown totale di primavera: quella sembrava ancora una misura eccezionale, di breve termine. Parlo della vita che conduciamo oggi, in questo tempo così uguale ormai da mesi e mesi. Mai avremmo immaginato di aspettare ogni venerdì i colori delle regioni per sapere se le settimane a venire saranno di detenzione o di semidetenzione (anche la libertà vigilata ci è per ora negata). Di poter andare al ristorante solo in certi periodi e in certe zone e solo a pranzo. Di non potere andare al cinema e a teatro. Di non poter circolare dopo le ventidue. Di non potere spostarsi fra regioni e in certi casi neanche fra comuni. Di non potere andare in palestra. Di vedere i ragazzi chiusi in casa tutte le mattine perché perfino le scuole e perfino le università sono chiuse, e quando un Paese chiude le scuole e le università la libertà viene a mancare come il respiro.

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