Covid, il “Palazzo” sempre più lontano e arroccato

L. d’Alessandro

C’è una bella differenza fra le parole “istituzioni” e “Palazzo”, rigorosamente con la P maiuscola. In fondo indicano la stessa cosa. Ma la prima è un sostantivo denso di prestigio e onore, la seconda un aggettivo squalificativo, un dispregiativo, per indicare quella profonda distanza che ormai separa i cittadini da chi essi hanno messo lì con la delega a rappresentarli. Nella prima Repubblica, con tutti i suoi difetti (ma in fondo c’è qualcosa che non sia imperfetta?), esistevano le istituzioni, protagoniste di riti forse stanchi, ma densi di un rispetto e una misura che non davano neanche lontanamente il segno di una politica lontana dal solco della Costituzione e dell’interesse del Paese, con fenomeni deteriori che erano l’eccezione e non la regola. Di tutto questo ci si può innamorare, facendo nascere la passione per la politica, intesa come servizio e non come opportunità o gestione del potere in quanto tale.

Poi è arrivata la seconda Repubblica, con la rivoluzione del linguaggio e della comunicazione, che però ha portato con sé, inesorabilmente, l’avvento della Costituzione materiale a sostituire quella formale e scritta, diventato né più né meno che un modo nobile per giustificare i sempre più numerosi scostamenti dalla nostra Carta fondamentale, giudicata “la più bella del mondo” solo quando conviene. Sono entrato a far parte delle istituzioni, sono entrato alla Camera, con uno smisurato orgoglio, figlio di quella passione nata attraverso la mia professione di giornalista. Per rendermi conto ben presto che il sostantivo stava già diventando aggettivo, che senza volerlo facevo parte del “Palazzo”. Sono stato in una posizione “privilegiata”, se così si può dire, per assistere a tutti quei giochetti, pratici e verbali, che hanno stravolto il senso di capacità politica, svilendone il ruolo di servizio, ed esaltando quello del cinismo, del trasformismo, della capacità di fare e disfare tutto, dell’abilità di saperlo giustificare con l’arte della parola in grado di rendere nobile ciò che nobile non è (una per tutti: “responsabili”). In sostanza, sono stato testimone, quantomeno colpevole di inerzia e immobile rassegnazione, di come si stava scavando sempre più profondo il solco fra Parlamento, governo e cittadini, complice anche quell’antipolitica presto uniformatasi a ciò che diceva di voler scardinare.

Sono uscito tre anni fa dal “Palazzo”, che oggi è diventato sempre più “Palazzo” e sempre meno istituzione, con i rappresentanti del popolo ancora più lontani dai danti causa. Si dice che solo un caso drammatico, solo una situazione tragica, solo un’emergenza generalizzata in grado di mettere tutti a rischio e in ginocchio il Paese, possano far scattare quell’interruttore in grado di invertire la rotta, interrompendo il pericoloso declivio verso il peggio e provocando una miracolosa rinascita dei valori. Un’epidemia globale per esempio, il Covid-19, tanto per citare qualcosa a caso.

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