L’impresa da salvare. Nelle industrie dei robot è ora di ripartire

di DAVIDE NITROSI

Protezione sanitaria, distanze rispettate, attenzione alla salute dei dipendenti con un filtro in ingresso di chi va a lavorare, spinta al digitale e alla robotizzazione, telelavoro dove possibile per evitare uffici o stabilimenti con troppe presenze.
Di fronte all’emergenza del Coronavirus la risposta del mondo del lavoro deve essere complessa perché non potrà ridursi per troppo tempo alla chiusura ermetica di ampi settori e allo stop conseguente delle filiere. Lo choc economico non è più sopportabile. Certo, l’iniezione di liquidità e il sostegno dello Stato, quanto mai fondamentali oggi, potranno dare ossigeno alle imprese, ma prima o poi finiranno. E sarà dura risorgere.

Chiudere e basta alla fine non salverà nessuno. Almeno non dalla povertà. Bisogna ragionare con criteri più affinati. Chiude chi non può garantire le misure necessarie per proteggere chi lavora. Chiude temporaneamente chi è in una zona rossa. Ma chi può, deve ripartire. Perché l’importante è proseguire le attività economiche di un Paese, attività che non arricchiscono una cricca di ricconi, ma che mandano avanti una nazione, garantiscono il benessere, la capacità di tenere in vita uno stato democratico e civile. E assicurano anche, con le tasse, le spese sanitarie.

Quali criteri? Le aziende a bassa tecnologia non possono essere valutate allo stesso modo delle imprese robotizzate, dove gli operai agiscono su linee autonome e con strumenti di comando a distanza. Penso alle perle dell’automotive, alla meccatronica, alle multinazionali tascabili altamente tecnologiche. Altre imprese, come nel tessile o nella trasformazione, si stanno adeguando e hanno l’occasione per modificare i loro modelli gestionali e garantire i requisiti per operare in sicurezza anche in caso di epidemie. Ogni passo va fatto di concerto con parti sociali ed enti locali che devono garantire, ad esempio, trasporti pubblici sicuri. 

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