Coronavirus, gli errori da evitare sul «dopo»

di Antonio Polito

Siccome siamo guelfi e ghibellini nell’animo, abbiamo già cominciato a dividerci su quando «riaprire» l’Italia, innescando un dibattito sulla data in cui mettere fine alla fase del lockdown, se prima di Pasqua o dopo, se ad aprile o a maggio. Poiché le incertezze sul quando «chiudere» furono all’origine di molti guai, vuol dire che non abbiamo imparato la lezione.

I tempi di questa crisi non sono nelle nostre mani, ma in quelle dell’epidemia. E chi non ne tiene conto finisce per fare la parte dell’asino di Buridano, che un giorno vuol chiudere tutto e il giorno appresso aprire tutto, disorientando l’opinione pubblica ma non il virus.

Intendiamoci, la tensione è comprensibile. Siamo tutti sull’orlo di una crisi di nervi, sarebbe inutile negarlo. Da settimane chiusi in casa. Con la prospettiva di passarci anche la Settimana Santa e quella dopo ancora. Ogni giorno che se ne va falcidia redditi familiari e Pil nazionale. È dunque salutare interrogarsi sul dopo. Ma la domanda giusta non è quando, bensì come. È giunta l’ora di aprire un dibattito nazionale sulla seconda fase, quella cosiddetta della «mitigation», sapendo che alla «normalità» ci torneremo solo quando saremo tutti vaccinati; ma sapendo anche che da qui ad allora ci può e ci deve essere una fase di «semi-normalità», in cui si convive con il virus. Avere davanti a noi un traguardo, intravedere una luce in fondo al tunnel, per quanto lontana essa sia, può anzi renderci più accettabile un ulteriore sacrificio, dare un senso alle nostre rinunce. Discutere seriamente di come «riaprire» avrebbe inoltre l’inestimabile vantaggio di farci evitare gli errori che abbiamo commesso al momento di «chiudere».

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