Coronavirus, la curva dei contagi (regione per regione) e l’attesa del picco. «Non si sa davvero quante sono le vittime»

di Alessandro Trocino

Ogni sera alle 18 gli italiani si radunano davanti al focolare della Protezione civile, in un rito laico officiato dai sacerdoti della scienza. Provano a decifrare la tabella dei dati e si appigliano alle percentuali per esorcizzare le loro paure. Ogni giorno quegli stessi dati diventano oggetto di analisi di statistici ed epidemiologici, moderni aruspici del virus. Ma quanto sono attendibili quei numeri e cosa ci raccontano? «L’unica certezza che abbiamo, purtroppo, è il numero dei decessi» spiega Vittorio Demicheli, epidemiologo dell’Unità di crisi della Regione Lombardia. Statistica macabra ma necessaria, anch’essa oggetto di distinguo, visto che la percentuale italiana è molto più alta di quella di altri Paesi.

Si dice perché qui, a differenza di altri Paesi, si attribuisca al coronavirus la causa di morte di pazienti già gravemente malati: «L’unico modo per capirlo — spiega Demicheli — sarebbe quello di fare un raffronto tra la media dei decessi dello scorso anno e quelle di quest’anno». Enrico Bucci — docente di Philadelphia che lavora in un gruppo che fa capo al presidente dell’Accademia dei Lincei, Giorgio Parisi — non ha neppure questa certezza: «Non sappiamo quanti siano davvero i morti. Nella Bergamasca ci sono stati diversi decessi in casa, non sottoposti a test». Pochissime certezze anche sul numero dei positivi, che dipende dai tamponi effettuati, dei sintomatici non testati e degli asintomatici. Come si fa, dunque, senza dati certi?

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