Marketing selvaggio, quanto valgono i nostri dati

Se in tema di industria dei dati – e quindi della pubblicità sullo smartphone, il tablet o il pc spesso diretta conseguenza di una ricerca personale che fa ‘spiare’ i nostri desideri: la ricetta di cucina, il viaggio, il ristorante o l’auto che vogliamo comprare – il pensiero corre subito ai giganti di Internet come Facebook, Amazon o Google, in realtà esistono decine di intermediari che si occupano di recuperarli e venderli. Sono i cosiddetti Data Broker.

Le società e start up che raccolgono le informazioni on line da fonti pubbliche (si pensi solo a quel che postiamo sui social, alle attività di browsing o ai tanti sondaggi e quiz gratuiti a cui partecipiamo), le aggregano, le interpretano e le analizzano per poi venderle. Spesso a pacchetti suddivisi per interessi (auto, trucchi, viaggi, investimenti), fasce di età (giovani, anziani) o di reddito. Il lavoro dei data broker dovrebbe rispettare le leggi sulla privacy, compreso il Gdpr, il regolamento comunitario per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2018 che ha aumentato i diritti alla riservatezza sui dati che forniamo a terzi ma anche regolato la loro portabilità. Non sempre, però, le norme vengono rispettate tanto che si stimano in oltre 315 milioni le vittime degli svariati reati del cybercrime nel mondo. Contro i furti dei dati i garanti della privacy europei hanno elevato, secondo Federprivacy, 410 milioni di euro di sanzioni nel 2019 (4,3 in Italia). Ma spesso le armi delle Authority sono spuntate e la miglior difesa sono i comportamenti personali nel non firmare consensi all’utilizzo dei dati, nell’evitare di metterli nel mare gigantesco di Internet e nell’usare tutti i sistemi (come app e adblocker) per evitare che sappiano tutto di noi.

QN.NET

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